«Qui».
Lo disse in un modo che poteva significare solo una cosa: “Fermati!”.
E io mi fermai.
Scesi dall’auto, chiusi la portiera, mi accesi una sigaretta, mi appoggiai al cofano caldo.
Era piacevole, nell’aria fresca della sera d’ottobre.
Tirai una boccata.
Nello stesso tempo, Claudia era scesa a propria volta, aveva lasciato la strada, era scesa nel fosso, era risalita dall’altra parte e si era inoltrata in mezzo al campo, infangando gli stivali.
Non le feci notare che, dopo, risalendo, avrebbe inzaccherato l’auto.
L’avrei fatto se ci fosse stata un’altra al posto di Claudia, e se un uomo lascia che una donna infanghi la sua auto senza lamentarsi significa che... be’, che quella donna può infangargli l’auto senza che lui si lamenti.
Claudia prese le misure – di cosa non saprei dire perché il campo era vasto e spoglio e, anche se ci fossero state delle linee, dei confini, sarebbero stati invisibili nella nebbiolina che saliva dalla terra – e decretò: «Qui. Millet l’ha dipinto qui».
«Per la miseria, è una campagna come mille altre. Come fai a dirlo?».
«Ma non vedi? La luce, le ombre...».
Sogghignai, togliendo la sigaretta dalla bocca «Non è un paesaggio reale. O meglio. È un ricordo. Un’immagine che Millet si portava dentro da quando era bambino. Lo ha dichiarato lui stesso».
Millet, Jean-François 1814 – 1875 pittore francese. Il quadro era “l’Angelus”, noto anche come “La preghiera della sera”. L’autore aveva voluto rappresentare una scena della sua infanzia quando la nonna, al rintocco delle campane, interrompeva il lavoro nei campi e recitava l’Angelus per i defunti.
Il quadro raffigura appunto due contadini in preghiera, al tramonto, in un campo. Accanto, un carretto e un attrezzo agricolo - una zappa o una vanga. Sullo sfondo, appena accennati, un campanile e un paese.
O almeno così si era detto finché Salvador Dalì, un giorno – e dopo molti altri giorni spesi a osservare il dipinto – aveva urlato “C’è la bara di un bambino ai piedi dei due contadini!”. Aveva convinto il Louvre a eseguire una radiografia – era Salvador Dalì a dirlo, mica un imbrattatele come il sottoscritto – e, nel 1963, l’esame aveva rivelato la sagoma di un parallelepipedo ai piedi delle due figure umane.
Claudia era convinta che Dalì avesse torto: nessun bambino sepolto. Era diretta a un convegno dove si sarebbe discusso di questo e io l’accompagnavo perché… be’, l’ho già detto: perché lasciavo che mi infangasse impunemente l’auto.
«E di quello che cosa mi dici?» domandò Claudia.
Era tornata indietro, era ridiscesa nel fosso che fiancheggiava la strada ed era risalita. Era accanto a me, adesso.
Aguzzai la vista.
Il fatto è che sono miope. Può essere un problema se il tuo hobby è la pittura.
«Uno spaventapasseri» dichiarai.
La figura solitaria, in mezzo al campo, era decisamente umana. O almeno doveva sembrarlo alle cornacchie.
«Tu stai sempre attento a vedere solo quello che vedi, non è così?».
Finii la sigaretta «Non vedevo spaventapasseri da un pezzo» dissi.«Comunque nel dipinto di Millet non ce ne sono».
«Ma potrebbero esserci».
Non commentai. Non sempre comprendevo la logica di Claudia. Forse perché non era logica.
«È questo il punto. Far vedere anche quello che non si vede. Quel campo è questo campo. Il nostro campo. Veniamo tutti dalla terra. Quei morti sono i nostri morti. Siamo noi. Quella preghiera...».
«Devo vedere una piccola bara appena sotto le zolle? O un semplice parallelepipedo va bene?».
Claudia non rispose. Avevo rovinato tutto e niente di quel avrei potuto dire o fare avrebbe riaggiustato le cose. Potevo permetterle di infangare tutte le auto del mondo. Non sarebbe servito. Nondimeno, ci provai lo stesso. «C’è davvero un paese, laggiù» Ne dissi il nome. «Se aspettiamo, forse riusciamo a sentire l’Angelus».
Guardò l’orologio «Faremo tardi al convegno» disse. Mi fece spostare e salì in auto. Prima di tirare dentro i piedi, li pulì alla bell’e meglio.
Feci il giro e salii anch’io.
Prima che mettessi in moto, lei mi disse: «Non tutto è morte. Non sempre è morte».

 

 

Ho le scarpe inzaccherate.
Avrei dovuto indossare gli stivali, ma l’ho scordato.
Infangherò l’auto che mi aspetta sulla carreggiata, accanto al bordo del fosso.
Davanti a me c’è lo spaventapasseri, quello che manca nel quadro di Millet. Dalle maniche della vecchia giacca spuntano pannocchie che vorrebbero essere mani e, sotto il cappellaccio storto, una zucca intagliata digrigna denti che non mordono. Halloween è vicino. Ma dubito che qualche cornacchia si spaventerà.
«Dicevi che non tutto è morte, che non sempre è morte» sussurro «Alla fine, però, è lo stesso. Se mi guardo in giro non vedo nessuno».
Lo spaventapasseri pare chinare il capo. Ma no. È sempre stato in quella posizione. Solo un gioco di luci e di ombre nella nebbiolina che sale dalla terra nelle sere d’ottobre.
Un suono lontano. Forse un rintocco di campana.
Chino la testa anch’io e dico: «Preghiamo».

 

 

NDA: Quanto riferito a proposito del quadro di Millet è vero, compresa l'interpretazione di Dalì, che arrivò a supporre che il quadro rappresentasse un infanticidio. Anche la faccenda della radiografia è vera. Gli studi più recenti, però, l'hanno alquanto ridimensionata, fino a smentirla.

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