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Un caldo africano, un silenzio rumoroso di frinire di cicale, un grappolo di bambini che vanno al fiume, quasi una pozzanghera, le 3 del pomeriggio in Sicilia non sono l’ideale per escursioni e gite ma i 9 \10 anni non temono alcunché e così giù di corsa a scapicollo, in mezzo ai rovi ai fichi d'india e alle bisce.
Man mano che si procedeva si raccoglievano more che si infilavano in fili d’erba e se ne facevano collane che rimanevano disadorne lungo il tragitto perché trasferivano il loro contenuto nelle bocche avide e impazienti dei bambini e i musetti e le mani sembravano quelli dei carbonai .
Tanti bambini, fratelli, cugini amici e lei la più petulante, pestifera, permalosa capopopolo detta anche ‘cita’ per i suoi dispetti.
Tutta elegantina, calzoncini, scarpe da tennis, cappellino e nera come un tizzone per il troppo sole, magra come un chiodo e due occhi di brace.
Procedeva baldanzosa, tutta impettita da apri strada e lasciava alle sue spalle il gruppetto delle cugine che parlottava, erano sorelle e avevano complicità che la escludevano e questo in lei provocava una rabbia rovente e la faceva fremere come un torello. La escludevano e la facevano impudentemente soffrire e allora con un gesto, di cui neanche oggi si è pentita, ha fermato il gruppo ha preso da parte una cugina, l’ha fatta sedere su un masso rovente e le ha strappato dai piedi le scarpe urlando: “queste sono mie! Te le ho prestate!”
E con fare da primadonna offesa, lasciando tutti a bocca aperta si avviò sul sentiero del ritorno, senza correre e arrivata a casa ovviamente le prese di santa ragione, ma nel frattempo la colpevole dovette ritornare scalza!
Non chiese mai scusa e ancora oggi che sono passati 50 anni crede di aver lavato l’onta della complicità che non la includeva.
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