Esaù era discretamente bravo anche nei servizi fotografici per matrimoni e prime comunioni, immortalava spose con l’aria sognante e comunicande sulla strada della santità.
Il suo problema, però, era una certa incostanza, per cui talvolta impiegava mesi per consegnare un album di nozze o sviluppava solo in parte le foto di un banchetto perché il secondo rotolino aveva preso luce.
La sua carriera si infranse nel 1950 (come dice Amedeo Minghi, “anno tra la guerra e il 2000”) quando fu incaricato da una delle più importanti famiglie del Livornese, di rendere imperituro con le sue immagini il matrimonio del rampollo Andrea che conduceva all’altare una leggiadra fanciulla di nome Rita, figlia di un ricco imprenditore.
Le nozze si svolsero nel migliore dei modi, abiti bellissimi, invitati eleganti, pranzo spettacolare e torta a sette piani.
Esaù scattò foto in tutte le pose, con genitori commossi, amici entusiasti e perfino una bisnonna in pompa magna.
Tutto benissimo. Fino a che, la sera, il nostro eroe si accorse con raccapriccio di non aver messo la pellicola nella macchina fotografica.
Inutile dire che rischiò il linciaggio. Il nerboruto padre della sposa, in gioventù portuale di Livorno, lo voleva uccidere.
Sopravvisse grazie al biglietto del treno per Grosseto che suo padre fu pronto a procurargli, ma la sua attività di fotografo era ormai finita.
Così si trasferì nel capoluogo maremmano vivendo per un paio d’anni dei bonifici paterni, poi uno zio deputato riuscì a farlo entrare in un ufficio pubblico dove le sue mansioni erano indefinite come le sue attitudini.
In quegli anni ritrovò Alfredo e presero a frequentarsi, discorrendo di varie amenità e facendo a chi le sparava più grosse.
Anna, suocera di Alfredo, sosteneva che il suo nome fosse veramente appropriato. “Non per il fatto delle lenticchie, anche se potrebbe farlo, ma perché, se ci pensate, Esaù è l’inizio di esaurito e lui lo è abbastanza. Pensate che la prima volta che l’ho incontrato con Alfredo mi ha fatto il baciamano e poi ha nafantato di una certa contessa…”
In effetti, Esaù aveva l’abitudine di declamare versi e quella volta, inopinatamente, se ne era uscito con: “…Contessa, che è mai la vita? E’ l’ombra di un sogno fuggente. La favola breve è finita, il vero immortale è l’amor ”.
La signora Anna, un tipo ironico e scanzonato, aveva l’abitudine di mettere soprannomi, per cui da quel momento lei e la figlia avevano identificato l’ex-fotografo come “l’esaurito”, mentre piuttosto esauriti erano in realtà i suoi parenti, sempre preoccupati per il loro originale congiunto.
(continua)