Stanca, la portai nel letto con me dove ci addormentammo come fossimo due anime fertili intrecciate, domandandomi se fosse scritto in qualche libro della vita che lo saremmo mai state.
La mattina seguente saltai l’inserimento, lasciai mia figlia all’asilo e tornai da lui.
- Ciao, ci sei?
- Dove vuoi che sia?
- Perché continui a ossessionarmi con i tuoi meschini giochetti? Appari e scompari: pensi di spaventarmi? Perché ce l’hai con me?
- Bella questa.
- Rispondimi.
- La prima cosa è che io non prendo parte a nessun giochetto. La seconda è che sì, ce l’ho con te perché non mi ha permesso di diventare padre.
- E dai la colpa a me di questo?
- Tu che dici?
- Che non è così. Mi soffocavi.
- Ottima motivazione, complimenti.
- Vivevo la tua vita, non la mia. Ero solo un’ombra sfumata e silenziosa dietro di te. Avevo ogni giorno gli occhi sempre umidi che foggiavano lacrime di sangue. Non volevo completare nessuno, tanto meno te. Le tue carezze duravano il lasso di quell’attimo inutile. Amare non è compiacere. Sei un graffio nell’anima che non cicatrizza mai.
- Un’accozzaglia di frasi senza senso prese da qualche libretto di citazioni strappalacrime.
- No, è la verità.
- La verità non esiste, esistono le opinioni, e queste assurde di cui vai blaterando sono le tue.
- Le chiami opinioni le tue violenze?
- Violenze, ma dai! Prova piuttosto a fare ordine nella tua testa e ritorna a quel giorno, a quel venerdì sera.
- Sono passati quasi due anni.
- Erano iniziate le doglie, stavamo vedendo un documentario sulla natura e gli animali alla tele, io volevo portarti in ospedale, tu volevi aspettare dolori più forti, hai iniziato ad urlare e rimproverarmi di cose insensate, siamo usciti di casa per una passeggiata a tentare una riconciliazione e siamo venuti qui.
- ...un bel posto, abbiamo avuto fortuna a trovare il nostro alloggio in questo edificio a un passo da questi scogli...
- I tuoi dolori si erano placati ma non le tue accuse.
- ...a picco sul mare...
- Non la smettevi più.
- ...con lo sciabordio del mare nelle orecchie...
- Ti imploravo di farla finita e di pensare alla bambina.
- ...pieno di precipizi da ogni parte...
- Hai iniziato a spingermi e picchiarmi e a spingermi sempre più.
- ... dove si sente forte il respiro dell’acqua e della terra...
- Ti ho lasciato sfogare senza accorgermi dei miei passi indietro verso il burrone. E poi è successo quello che è successo. Ma mi stai ascoltando?
- ...lo senti anche tu ora?
- Qui c’è solo il silenzio straziante dei tuoi demoni. Tornatene a casa ora.
Feci come disse. Me ne tornai e mi accasciai sul divano per un tempo che credetti di pochi minuti, ma quando squillò il telefono mi resi conto che erano passate delle ore. L’asilo! Schizzai a prendere mia figlia e la trovai che piangeva disperata. Nulla e nessuno l’avrebbe calmata. Le maestre mi sputarono sentenze: è una bambina particolare, non fa grandi progressi, piange spesso, non si relaziona, ma cosa ti vuoi relazionare quando il padre è assente e la madre si arrabatta come può a sopravvivere? Stavo impazzendo. A casa, la parcheggiai davanti a un cartone animato giapponese mentre una tazza di caffè del giorno prima, freddo e disgustoso, scorreva libero nel mio esofago fino a ristagnare in fondo a uno stomaco vuoto. Preparai qualcosa di commestibile per tutte e due: roba gelata di frigo per me e una pappetta insulsa per lei e mi avventurai a trascorrere un altro fantastico fine settimana da ragazza madre.
In realtà passarono mesi senza che me ne accorgessi, senza venerdì, senza voci e senza documentari in televisione. Una routine devastante stava intaccando quel filo sottile che teneva in piedi la mia anima, routine che ancora non potevo sapere quanto avrei anelato se solo quella mattina maledetta non avessi deciso di rispondere al cellulare… numero privato di nuovo, ma ero ben intenzionata a chiudere definitivamente quelle incursioni con qualche deciso improperio all’interlocutore, venditore di chissà cosa.
- Pronto, chi è?!
- Ciao.
La voce. Lui.
- Tu?
- E’ un po’ che non vieni a trovarmi.
- E’ un po’ che non mi va.
- La bimba?
- E’ all’asilo.
- Vorrei parlarti, volevo chiederti se possiamo vederci al solito posto.
- Non puoi dirmi qui, ora?
- Preferirei di no.
- Eri tu a chiamarmi le altre volte quando squillava il telefono?
- Forse. Andiamo, ti aspetto lì.
Attaccai e, senza pensarci su, presi la borsa e raggiunsi il luogo dell’incontro.
- Eccomi, cosa volevi dirmi?
- Voglio sedare ogni incomprensione e odio anche se non mi hai mai chiesto scusa.
- Scusa? Ancora con questa storia che sia stata colpa mia? Non ti ho spinto io, è stato il...
- ...il vento sì lo so, dai, non parliamone ora, siediti qui e godiamoci il panorama.
- E’ pericoloso qui, troppo vicino al baratro.
- Ma è qui che eravamo… ricordi?
Mi sedetti su un masso a ridosso dello strapiombo, una sensazione di strana sazietà mentale mi pervase. Una calma inaspettata e inquietante adombrò i mie pensieri. Chiusi gli occhi, sentii una persuasione occulta ottundere i miei sensi. Restai così, immobile, sospesa a godermi il momento bagnato di luce intensa che traspariva attraverso le palpebre. Ora ricordavo.
- Sì, eravamo qui è vero, perché proprio oggi?
- Perché è venerdì e stasera saranno due anni esatti dalla disgrazia e così ho pensato che potevamo mercanteggiare con Dio il prezzo della tua vita, proprio oggi.
- Forse Dio ha ancora bisogno di me.
- Non credo. Non ci sono più battaglie da combattere. Nemmeno con Dio.
- Dimmi cosa vuoi fare.
- Non lo so, non posso raccontare una storia prima di conoscerne la fine, non è così semplice.
- E non può esserlo?
- Non più. E’ tardi. E’ troppo tardi. E ora alzati, vieni con me, il vento sta iniziando a soffiare, anche per te.
Aprii gli occhi, ubbidii e mi tirai su. L’inchiostro delle sue parole stava sbiadendo mentre i miei ricordi erano un martellio perforante. Morire è passare, è un modo di essere, mi stava suggerendo un istinto sconosciuto. Poi improvvisamente, di nuovo, lo squillo del cellulare. In bilico a un passo dal vuoto, infilai in modo maldestro le mani nella borsa rischiando di cadere, presi il telefono e senza vedere lo schermo, risposi urlando.
- Ancora? Non ti basta? Faccio quello che vuoi! Sto venendo! Cosa vuoi di più?!
- Signora, voglio che venga a prendere sua figlia, l’asilo sta per chiudere!
Una brusca massa d’aria stratificata e violenta mi costrinse a fare da contrappeso tra il mio precario equilibrio e lo spettrale sorriso di lui che sguaiato mi sollecitava a lanciarmi giù.
- Pronto? Mi ha sentito? La bambina è ancora qui! Pronto?!
Ma l’abisso sotto di me chiamava più forte.
Voci ovunque che, come atomi impazziti, stavano sfondando le sottili pareti della mia instabile mente.
Mia figlia o lui. Io o lui. La vita o lui.
Nessun consiglio dal latitante destino.
Nessun segno dal cielo o dalla terra.
Solo di nuovo quella strana calma improvvisa.
Dovevo agire e agii.
Dovevo decidere e decisi.
Non sono pazza e… sì, sto arrivando, pensai, da te.