Oniricon era l’ultimo visionario. A causa del bisogno di rinchiudere tutto in supporti digitali, di restringere, limitare, agire in fretta per tamponare le emergenze, non esistevano più strumenti adatti per forma, spazio e fantasia a contenere progetti di ampio respiro. Così Oniricon, nelle giornate serene, si era abituato a disegnare nel cielo le sue visioni fantastiche di mondi futuri e diversi.
Progettava ponti privi di piloni tra i continenti e sostenuti da cavi di buona volontà; plasmava plastici fatti di cirri per modellare città con strade percorse da auto teleguidate a idrogeno liquido, centrali a vapore ottenuto dai raggi concentrati del sole, lampioni con filamenti di polveri di stelle, treni in grado di percorrere qualsiasi itinerario, muniti di rotaie che si srotolavano direttamente dalla motrice di testa e venivano recuperati dalla motrice di coda; e ancora: navi con eliche mosse da gigantesche coppie di elastici attorcigliati, aerei con motori alimentati dai respiri dei passeggeri, adeguatamente compressi e rilasciati in cannule di infinitesimo spessore.
In questo suo continuo disegnare sull’infinita lavagna azzurra, si nascondeva un pericolo di cui Oniricon era ben conscio e che segnalava ogni giorno a chi aveva intorno. Inascoltato, aveva preso ad aggirarsi tra la folla, a tenere convegni, a sgolarsi nelle piazze: «Guardate che presto arriveranno le nuvole e cancelleranno tutti i miei progetti!»
Ma la gente teneva gli occhi bassi, non era più abituata ad alzarli verso il cielo. Quando le nuvole arrivarono, posarono il cancellino sulla lavagna e in quattro passate resero il cielo plumbeo e vuoto.
L’ultimo visionario, sconsolato, continuava a fermare i passanti esternando la sua desolazione, ma la gente lo schivava, non gli badava, lo spintonava in malo modo. Sfinito dal suo inutile vagare, si fermò in un piccolo parco e si abbandonò su una panchina, gomiti sulle ginocchia e testa raccolta tra le mani.
Poco oltre un gruppo di bimbi giocava felice nel prato. Ma uno di loro, in età più adulta, appartato con il suo tablet, si accorse dell’uomo seduto sulla panchina, si avvicinò e gli chiese incuriosito:
«Tu sei quello che disegna nel cielo?»
«Sì sono io, ma ora non più»
«Peccato, a me piacciono i tuoi disegni, li ho fotografati». Un tocco sul tablet e apparvero tutti sullo schermo, sovrapposti nell’azzurro del cielo.
Oniricon sollevò il capo e sorrise, ma non solo per la gioia di aver recuperato i suoi progetti. Se quel giovane, spontaneamente, aveva provato l’impulso di guardare in alto, c’era ancora speranza.
© Cesare Ferrari