La verità è che è necessario perdere ogni punto di riferimento, ogni desiderio e ogni speranza, per comprendere cosa realmente sia la libertà.
La gente che mi chiede come io faccia a vivere in questa maniera non sa di cosa parla. Non potrebbe mai capire cosa vuol dire svegliarsi ogni giorno in un luogo differente. Chiamare casa qualsiasi superficie sulla quale si poggia la testa per dormire. Ricercare sicurezza e stabilità in uomini mai incontrati prima, e solo per una notte. E poi, la notte successiva, ritornare coi piedi per terra – piedi nudi, oltretutto, e freddi e terribilmente fragili, senza ossa – e sentirsi mancare l'aria nei polmoni.
Non c'è motivo di parlare con persone del genere, con chi queste cose non le capirà mai. Loro appartengono a qualcuno, appartengono a qualcosa.
Io neppure al mondo appartengo. Sono di tutti e sono di nessuno, tradisco me stesso ogni qualvolta ne ho l'opportunità e poi mi inginocchio davanti allo specchio come a chiedermi perdono.
A perdersi di fronte al mondo, ci vuole davvero poco.
Ti terrorizza fino al punto che non puoi neppure parlarne e, arrivato al traguardo, ti giri all'indietro e vedi solo penombra. Una notte che sembra non finire mai e un orizzonte così lontano che già sai che non potrai mai raggiungere.
Ti spingi, allora, sino a che le gambe tremano violentemente e non puoi più proseguire. Spingi ancora e cerchi di strisciare a terra tra la sabbia che ti entra in bocca e l'asfalto bollente che ti strappa il pantalone e ti graffia la pelle. Ti spingi fino a renderti nomade in un mondo che non ti è mai veramente appartenuto. E allora ti fermi, perché comprendi che tutto questo non ha senso, non ne vale la pena. Ti fermi, a corto d'acqua e perfino di lacrime, e guardi il cielo scuro sopra la tua testa.
Una sensazione che ti paralizza e, al contempo, ti spinge a rifare tutto da capo.
E ci caschi ancora.
E ancora.
Sino a che, poi, non sei costretto a chiudere gli occhi per davvero.