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L'animatore puntò il dito indice verso un punto imprecisato della montagna che sovrastava la pianura e disse: “Oggi andremo lì.” Noi ci guardammo in faccia, sconcertati. Il sole caldo colpiva i ciottoli sulla riva del fiume e i sassi rifulgevano di una luce vivida che ci costringeva a socchiudere gli occhi. Si fece avanti un bambino gracile e occhialuto. “Siamo solo dei bambini. Noi, lassù, non ci saliamo.” L'animatore sorrise e gli appioppò sulle spalle, come a noi tutti, un poderoso zaino. Poi partimmo e dopo un po' guadammo il fiume, approfittando di un tratto da cui spuntavano grossi sassi piatti dall'acqua limpida e azzurra. Proseguimmo come una piccola truppa di soldati costeggiando delle baite. Davanti a una di queste c'era un uomo barbuto, seduto su una panca che tagliava su un tavolaccio del formaggio a fette e sbocconcellava del pane scuro. Avevo fatto colazione da poco meno di due ore ma mi venne di nuovo fame. Il leggero vento che arrivava da nord est faceva vibrare le fronde di un enorme pino che stava accanto alla baita. Continuammo a salire. I nostri scarponcini sollevavano nuvole di polvere. “State lontano dal ciglio del sentiero e non fate cadere sassi. Ci potrebbe essere qualcuno sotto” ci intimò l'animatore. Annuimmo sbuffando. Eravamo partiti da poco più di venti minuti e ne avevamo già abbastanza. Il sentiero si inerpicava furiosamente mettendo a dura prova le nostre flebili resistenze. Davanti a noi una pista nuda e bianca che si dipanava, infinita. Sotto, la pianura in cui si intravedevano, sempre più lontani, frutteti e sopra di noi la montagna scura e ancora lontana. Ogni tanto facemmo una breve sosta per abbeverarci dalle nostre piccole borracce. L'animatore guardava il cielo che cominciava a farsi scuro. Forse si stava avvicinando un temporale. Alle nostre spalle avvertimmo un lieve ansimare cadenzato, ma, non affaticato. Poi ci sorpassò un uomo con il torso nudo imbrunito. Portava in spalla una grossa gerla ricolma di bibite. “Chi è quell'uomo? Chiesi all'animatore. “Lo chiamano El Negher. E' uno di qua. Ogni giorno porta su in cima le bibite e le vende ai turisti. Siamo a posto!” “Perché?'” “Se va su anche oggi il temporale non arriva.” Guardai davanti a me. El Negher era già avanti di almeno cinquanta metri. Più che un uomo, uno stambecco, pensai. Continuammo a salire in silenzio. Ogni tanto incrociavamo qualche pellegrino e chiedevamo quanto mancasse. Le loro risposte erano vaghe. Vedendoci stremati tentennavano. L'animatore elencava ai più facinorosi di noi i nomi delle montagne che ci circondavano. Ne ricordo ancora adesso qualcuno: Cevedale, Monte San Matteo, Pizzo Tresero. Noi ci eravamo tolti le camicie di flanella legandole agli zaini. Ci stavamo avvicinando all'ora di pranzo e faceva caldo. Ogni tanto sentivamo dei fischi lontani. Erano le marmotte, ci disse l'animatore. Ci spiegò che una serie cadenzata di fischi avvertiva che un pericolo stava arrivando da terra. Un solo fischio potente significava un pericolo dal cielo. Cercai di avvistarle ma si mimetizzavano nella brulla radura. Dopo un po' ci rinunciai.
Dopo circa quattro ore riuscimmo ad arrivare al rifugio. Da lì, dopo pranzo, che consumammo al sacco, i più volenterosi avrebbero continuato fino ad arrivare al ghiacciaio. Tirammo fuori i panini dagli zaini e mangiammo avidamente seduti su larghi lastroni di granito portati da chissà quali forze misteriose di un passato ormai remoto. Poi, mi sdraiai, appoggiando la schiena sulla pietra calda e chiusi gli occhi. Fui svegliato da un vociare. Sentii qualcuno che disquisiva di ferrate e percorsi. Mi rialzai a sedere. I miei compagni erano , più o meno, nelle mie condizioni. I più resistenti erano partiti alla volta del ghiacciaio insieme all'animatore. Lì, con noi, era rimasto un giovane ragazzo che gli faceva da aiutante. Era distrutto e aveva una faccia da funerale. Era il primo anno per lui. Aveva sostituito un altro ragazzo che aveva deciso di diventare prete. Incrociai il suo sguardo. “Stanco eh?” chiese “Distrutto.” “Io non ero mai salito così in alto” disse. “Da dove vieni?” chiesi.\ “Da Rimini. Mai uscito da Rimini.” “Io ci vado ogni anno in Agosto con i miei. Non proprio a Rimini. Igea Marina.” “E' vicina.” “Si.” “Tu sei uno che non parla molto.” “No. E non mi piacciono neanche le montagne.” “ Neanche a me. E che ci facciamo qui?” “Ah. Per quanto mi riguarda mi hanno mandato i miei genitori. E tu?” Il ragazzo se ne stette in silenzio. Come se si fosse pentito di avere parlato per primo. “E che a me manca il mare” disse. “Credevi che un miracolo te l'avesse fatto trovare qui?” “Certo che per essere uno di poche parole ne hai già dette abbastanza” disse ridendo e si alzò.”Ho proprio bisogno di un caffè.” E si avviò verso il bar. Era un bravo ragazzo. Un po' smarrito. Come me, del resto, ma, era giovane. Aveva tutto il tempo per ritrovarsi. E anche io. Mi rimisi sdraiato e mi addormentai e feci un sogno.
Ero in riva al mare che era calmo come non l'avevo mai visto. Non c'era nessuno e io temporeggiavo per entrare in acqua. Non volevo spezzare quella quiete. L'assenza di increspature rendeva la visione di una bellezza silente come se, quasi, preludesse a un esplosione che ,però, non accadde. Tutta quella calma mi fece venire voglia di vita. Avrei desiderato avere tutta la vita accanto a me, viverla in un istante e poi gettarla lontano come un boomerang e vederla ritornare dal cielo terso che stava sopra quel mare imperturbabile. Davanti a quel mare non avvertivo più limiti. Nel sogno desiderai di addormentarmi e di fare infiniti altri sogni, ma rimasi sveglio e improvvisamente vidi una vela all'orizzonte. Una vela bianca e lucente. E poi si fece buio e non vidi più nulla. Tutto continuava a essere tranquillo. Rimasi lì. Continuai a godere di quella calma piatta. Fino alla fine del sogno.
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