Solo dopo molti giorni Cola torna alla Lanterna, nello specchio d’acqua sotto il Faro per incontrare i picciotti.  Turiddu, Pascalinu e Ntonieddu gli dicono:  «Cola! Un pisci diventasti, ti crisceru li branchi!».

Cola non vuole più vedere Ninài né Nunziatina. Spesso però torna alla Lanterna, per i suoi amici. “Cola Pisci” lo chiamavano al Faro, sempre sottovoce, sempre lontano dalla chiesa e dai parrìni, quasi si vergognassero di conoscere quel ragazzo che ha branchie non segnate.

Quando Pascalinu eredita la barchetta di suo padre, Cola lo segue nuotando veloce come un siluro. Con le mani e con il coltello cattura pesci e li dona all’amico: «Mi raccomando, porticcilli puru a Ntonieddu e a Turiddu!». 

Un giorno, la barchetta di Pascalinu inizia a roteare in uno di quei mulinelli che spesso si formano presso al Faro, anche quando è sereno. Gli antichi dicevano che fossero Scilla e Cariddi, i due mostri immani che sputavano acqua dalle fauci spalancate. Pascalinu, incapace di governare, chiama: «Cola! Cola Pisci! Aiuto!». Cola arriva subito, afferra la chiglia con le mani e trae l’amico e la sua barca fuori da quella danza mortale.

Le voci corrono. Ormai sulle due rive dello Stretto non si parla d’altro che di quel ragazzo, mezzo uomo e mezzo pesce, che nuota più veloce dei pesci spada e si immerge più profondamente dei pesci San Pietro. 

Ai tempi della nostra storia, ogni primavera il Re di Sicilia si reca in nave da Palermo a Messina con tutta la sua Corte. Passa dal Faro e viene a sapere di Cola Pesce.

Lo fa chiamare e salire sulla nave. Salpano e raggiungono il mare aperto. Il Re prende un anello di grande valore, tutto d’oro, tempestato di rubini e diamanti, e lo getta in acqua:  

«Prendilo e sarà tuo».

Cola si tuffa.

Troppo tempo è passato. Nelle barchette che fanno codazzo alla nave del Re, i pescatori sono sgomenti. Troppo fondo perché un uomo possa sperare di tornare in superficie. I cortigiani non sono sorpresi e sogghignano, avvezzi come sono alle crudeli bizzarrie del monarca.  

Quando ormai nessuno se lo aspetta, Cola riemerge con l’anello in mano.

«Cos’hai visto là sotto?».

«Fuoco e acqua, Maestà. Non si vedeva bene, c’era troppo fumo».

«Voglio sapere se ci sono pericoli per il mio regno. Torna più a fondo e riferisci. Se avrai successo ti nominerò mio Grande Ammiraglio».

Cola si immerge di nuovo. Questa volta passa molto tempo e persino i suoi amici che sanno delle branchie si disperano. Quando il Re aveva già dato ordine di tornare a riva, la vedetta grida:

«Cola Pisci!»

E il Re: «Cosa c’è là sotto. Dimmi tutto, Cola».

«Il fuoco dell’Etna fa bollire l’acqua, Sire. La Sicilia poggia su tre colonne, Capo Passero, Capo Boeo e Capo Peloro. Quest’ultima è stata erosa dai vapori bollenti. Sono sceso fino al fondo dello Stretto e ho visto che è incrinata».

«Adesso sei il mio Grande Ammiraglio, Cola Pesce. È tuo dovere difendere il Regno da ogni pericolo che viene dal mare. Torna in fondo e puntella quella colonna con il ferro, dovesse anche costarti la vita. Se riuscirai sarai il mio Vicerè».

Cola si tuffa di nuovo, con una gran trave di ferro in mano. L’attesero due giorni interi, invano. Il terzo giorno la nave del Re riparte, diretta a Messina.

Alcuni dicono che, come un novello Atlante, Cola rimase giù sul fondo a reggere la colonna incrinata. Altri sostengono che in fondo al mare Cola abbia incontrato suo padre, Tritone, e che questi gli avrebbe detto:  

«Che fai? La Sicilia non è minacciata dalle fiamme dell’Etna. Il  pericolo vero sono i despoti rapaci, quelli come il tuo Re e come quelli che verranno dopo di lui, pretendendo di ricoprire tutto di ferro e di cemento. Rimani con me, piuttosto, e con le mie sirene».

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