«Cominciò in Riviera, credo già il secondo anno che suonava nei locali. Forse aveva avuto troppo successo, o troppo presto. O forse non ne aveva avuto abbastanza». Prese un sorso. «Sai com’è quell’ambiente». Lo disse con una smorfia, come se, insieme alla birra, avesse bevuto un po’ disprezzo. Anche Christian aveva un soprannome. Lo chiamavamo “Lo sbirro”, forse per un rispetto delle regole che giudicavamo eccessivo, forse per una certa, strutturale durezza. Prima che me lo chiediate... no, non ero affatto sorpreso che avesse scelto la carriera del poliziotto. Tra noi, era l’unico che facesse il mestiere che, da ragazzo, gli era stato cucito addosso. Pensai che forse non aveva avuto scelta. Forse quella sua rigidità non si era ammorbidita. Era stata solo incanalata.
«L’estate che partì, prima di andar via, mi aveva dato l’unico bacio che ci fossimo mai scambiati. Io avrei voluto molto di più… a tutti voi aveva dato molto di più… ma mi disse che sarebbe stato un peccato. Proprio così. “Sarebbe un peccato, Sbirro, un vero peccato” mi disse».
Si chinò sul tavolo, le dita intrecciate. Mi venne in mente l’immagine di un penitente in un confessionale.
«Sai che fui io a trovarla?» chiese.
Annuii e basta.
«Overdose. È dura quando il tuo primo amore – e tu sai che è l’unico perché, per quanti tu ne possa avere in seguito, esiste un solo numero uno, in matematica come nella vita – ti respinge. È più dura quando scopri che era una poco di buono e che ti eri sbagliato sul suo conto. È ancora più dura quando capisci che ti eri sbagliato sul serio, più di quanto avresti mai immaginato».
Finì la birra e non se ne versò più. Sbirro non perdeva mai il controllo. Mai.
«Non esistono cose come i bei tempi andati, l’innocenza dell’infanzia, la poesia della giovinezza. Non c’è un momento in cui puoi dire: “ecco, è successo questo o quest’altro, è colpa di quello o di quell’altro, che ha portato via l’innocenza”» proseguì. «Non siamo mai stati innocenti. Nessuno di noi, mai. Gente come noi lo sa bene».
Annuii di nuovo. Certo che lo sapevamo. Uno sbirro e un avvocato. Chi meglio di noi? Questo era il motivo per cui ero tornato al paese. Questo il motivo per cui avevo offerto a Christian una consulenza che lui, per cortesia, non aveva rifiutato. Convincermi, o illudermi, che, dopotutto, ci fosse un po’ d’innocenza in qualche punto dello spazio o del tempo. Che l’ispettore Christian Gori, alias Sbirro, non era colpevole di violenza sessuale nei confronti di una minorenne. Che Cicala volesse solo suonare e cantare e ballare e basta perché questo fanno le cicale: cantano, e neanche per tutta l’estate, ma solo un mese o due. Poi muoiono.
«Credo che, per un po’, sia riuscita a non farsi, ma poi abbia ceduto. Tutti gli spacciatori si drogano, prima o poi. È solo questione di tempo» proseguì Christian. «Si era iniettata una dose eccessiva, ma avrebbe potuto sopravvivere, se l’ambulanza fosse arrivata in tempo». Sembrò tendere l’orecchio come se udisse la sirena sotto il frinire assordante delle cicale. «Non riuscivo a togliermi dalla testa quelle parole: “Sarebbe un peccato, Sbirro. Un vero peccato”».
Sentii qualcosa salire dallo stomaco. Un fluido limaccioso e marcio che esalava vapori velenosi nell’aria estiva.
Christian si appoggiò di nuovo allo schienale della sedia. «Buffo come le cose riemergano dal passato quando meno te lo aspetti» disse.
«Non so se sentirti colpevole...» farfugliai. Mi sembrava che un liquido verdastro e puzzolente, venuto da chissà dove, mi uscisse dalla bocca insieme alle parole.
«Non farti condizionare dalla deformazione professionale» disse Christian. «Voi avvocati cercate di convincere tutti che non c’è nessuna colpa, noi poliziotti di agguantare quella stessa colpa, come se fosse una mosca, e metterla dove non può più nuocere... ma falliamo sempre, tutti quanti. La allontani, ma prima o poi la colpa ritorna. Cerchi di tenerla sotto controllo, ma lei si ribella. Arriva un momento in cui prende il sopravvento e nel modo che non ti aspettavi».
«Non so se posso esserti d’aiuto in questa faccenda». Non dissi quale. Non importava. Non avrei potuto essergli d’aiuto in nessuna faccenda, mai più.
«Eppure sarebbe così semplice. C’è un delitto, un colpevole e una pena da scontare».
«Mi spiace». Non precisai se mi riferivo a lui, a Cicala, alla ragazza che Christian aveva o forse non aveva stuprato in preda a chissà quale momento di follia, represso per tanti anni in cui si era sforzato di seguire e far applicare le regole (non me l’aveva detto, non me l’avrebbe mai detto – ora me ne rendevo conto), ma aveva ragione. Non siamo stati innocenti, mai, e dire “mi spiace” non serve a niente, tranne forse un po’ a chi lo dice… e, sì, mi spiaceva anche per me stesso. Forse soprattutto per me stesso e anche questa era una colpa.
«Ho ritrovato la sua chitarra» disse Christian «A una fiera di modernariato… chissà come c’era finita. L’ho riconosciuta subito, anche se era rovinata, proprio come l’avresti riconosciuta tu. L’ho comprata, l’ho portata a casa e l’ho smontata. Non so che cosa pensassi di trovarci dentro. Forse tracce di roba che mi ricordassero che Cicala era una poco di buono. Non mi faccio più molte illusioni su me stesso. Ci ho trovato questo, invece».
Estrasse dal taschino della camicia – è un pezzo che non fanno più camicie da uomo con le maniche corte, ma lui continuava a portarle perché Sbirro è fatto così – un foglietto di carta con delle scritte sbiadite.
«Ci sono dei nomi» disse «di tutti noi. Di tutti voi. Accanto, una “X”, tranne che in corrispondenza del mio».
Appoggiò il biglietto sul tavolo e lo lisciò. Non si ruppe, Forse una volta la carta era più spessa.
«Accanto al mio c’è un cuore con una scritta: “Non adesso, non ancora. Più tardi e per sempre”».
Prese il fascicolo delle indagini sul suo conto, ci infilò dentro il biglietto e mi porse tutto quanto. «È proprio come hai detto. Una brutta storia».
Sugli alberi, le cicale frinivano.