Si chiama Acqua Acetosa l’antica fonte. Anch’io da piccolo, come tanti romani, andavo a bere per mano a mio padre e ne porto ancora un nostalgico ricordo. Di acqua forse non c’è più traccia, come tante cose preziose cancellate dalle speculazioni, ma è rimasto il nome a indicare la zona.
La notte del 9 ottobre 1963 mi trovavo da quelle parti con gli amici a giocare al boowling, in un localone del lungo Tevere. Erano quasi le due del mattino e ascoltando la radio mandavo giù l’ennesima grappa. Avevo cominciato a bere un po’ troppo, primo perché ero di ritorno dalla Scozia dove la sera si va solo al pub. E a che fare ? A bere, che altro? Ma il vero motivo era l’amore, amore vero, una bellissima storia chiusa improvvisamente.
Tornando a quel 9 ottobre, la radio accesa nel locale fu come uno schiaffo che fa male ma ti sveglia l’anima. Trasmetteva notizie apocalittiche, anche se imprecise. Si parlava del presunto cedimento di una diga e di uno, forse più paesi spazzati via vicino a Belluno. Ci guardammo in faccia e bastò questo. Ognuno di noi passò da casa per cambiarsi, mettersi addosso qualcosa di più consono al lavoro che presumevamo ci aspettasse. Durante il lungo viaggio da Roma ci alternammo alla guida per dormire un po’ a turno, il mio però era solo un confuso dormiveglia, addolcito dai ricordi di quella passione nata sui banchi di scuola….Io, che dall’ultimo non la perdevo di vista…Lei, seduta nell’altro angolo della classe, che troppe volte si girava a guardarmi… Lo stesso batticuore ogni volta che i nostri occhi si incrociavano…. La notte ingoiava i miei ricordi assieme ai chilometri , le pietre miliari segnavano la strada percorsa così come i miei sospiri segnavano il dolore per l’amore che mi era stato strappato.
Poco dopo le tredici del 10 ottobre arrivammo a un posto di blocco non lontano da Ponte delle Alpi. Ai due carabinieri motociclisti dichiarammo il motivo della nostra presenza e loro ci dissero che il comune di Belluno rilasciava un lasciapassare, facendo così un censimento dei volontari.
Ci aggregarono ai vigili del fuoco della caserma di Belluno e da lì ci indirizzarono al loro coordinamento in quella che era stata, se non ricordo male, la segheria. Così, passato il posto di blocco, costeggiammo per qualche chilometro il fiume ora ridotto a pochi rigagnoli e di quando in quando, lontane come formiche, si intravedevano persone che perlustravano i fondali. Noi arrivammo alla segheria e lì, grazie ai miei due metri d'altezza, diventai immediatamente Tarzan per tutti, tranne che per il gruppo dei romani.
Per loro fui subito TARZANNE.
Ci ordinarono di scendere al fiume ormai quasi in secca e di sparpagliarci in cerca di corpi, così, subito, come si fa con i neonati buttati in acqua per imparare a nuotare d’istinto, senza lasciare alla mente il tempo di realizzare una cosa qualunque, fosse incoscienza o paura di non reggere l’impatto.
Mi guardai attorno. Nel letto del fiume assieme a noi c’erano molti mezzi militari, pompieri , Croce Rossa , elicotteri.
Sui ripidi e alti argini era evidente il segno della grandezza e della potenza dell’onda di piena che aveva distrutto il paese alle mie spalle. Camminavo saltando da un rivolo all’altro, tra frasche di giunchi piegati dalla furia, su grandi strati di breccia di pietre bianche, levigate dall’acqua, poi improvvise cataste di legna che erano rimaste impigliate in qualche gruppo di alberi più robusti e lì in mezzo, spostando qualche tavola o qualche tronco, era facile trovare scomposti e nudi i corpi martoriati di tanta povera gente. Solo il silenzio può descriverne l’impatto emotivo.
La prima giornata volgeva al termine così decidemmo di fare un giro e capire per conto nostro l’entità della tragedia. Anche se il tempo può aver annebbiato i ricordi, quello che mi impressionò fu lo scavo al di sotto del piano stradale per liberare dal fango e dai detriti quattro corpi senza vita, tutti avventori di un’osteria ancora con le carte in mano.
Erano sotto il piano stradale perché dal monte Toc, cosi chiamato per i tocchi di montagna che spesso si staccavano dalle sue pareti, ne era venuto giù uno di proporzioni gigantesche.
Piombato nel bacino artificiale e trattenuto da una diga che non doveva essere lì, aveva fatto rialzare una massa enorme di acqua, detriti e fango. Tutto si era poi riversato a valle come fosse caduto dal cielo, schiacciando il paese di Longarone e uccidendo così tanta gente, non tanto per annegamento ma per compressione, ma di questo ne avemmo conferma solo in un secondo tempo.
La sera mangiammo una pizza e al rientro nella caserma che ci ospitava ci accolse un brigadiere dai capelli bianchi e dai modi burberi. L’autorimessa era già piena di brande a castello tutte occupate o prenotate con borse piazzate sui materassi. Il brigadiere, borbottando che per i primi giorni ci saremmo dovuti accontentare, ci pilotò verso le nostre “camere da letto”……Un mucchio di paglia sparsa a terra. Ce la indicò, ruggì la cosa più simile a una buona notte e se ne andò continuando a brontolare.
Su quel pagliericcio crollammo vestiti, sfiancati dalla lunga notte di viaggio e poi dall’immediato lavoro al fiume.
…..Il sonno troncò a metà le immagini delle ultime ore che si accavallano ancora nella mente. La realtà adesso si scioglieva nei sogni e nei sogni tornava LEI , i primi casti baci che riuscivamo a scambiarci fugacemente sui cinque gradini dietro l’ascensore del palazzo del doposcuola.
Sulle sue labbra c’era un velo di burro di cacao con pagliuzze argentate. Quel profumo e l’emozione di quei baci rubati al tempo, sono stupendo ricordo indelebile, anche oggi che ne scrivo a distanza di quarantanove anni…
All’improvviso mi svegliai di soprassalto. Non so che ora fosse, il silenzio della notte era invaso da singulti, denti digrignati, disperati, accorati richiami…
- ”Mamma mamma“ -………
Eppure tutti dormivano… Ma gli incubi riuscivano lo stesso a rubare la voce per urlare il dolore represso. Pensai che nessuno è d’acciaio, nemmeno quegli uomini rotti a tutto, abituati a vedere le peggiori disgrazie, ma fatti anche loro di carne, di dolore, di sentimento. (SEGUE)