Poi si annunciò l’erede. Questa notizia, come spesso accade, fu accolta dagli attori in commedia con sentimenti contrastanti.
Il nonno Carmelo viaggiava una spanna sopra terra. Non solo per la felicità, ma anche per non far vedere a tutti che, ogni volta che pensava al nipote in arrivo, si pisciacchiava addosso.
La nonna Carmela intasò l’agenda del parroco di Sant’Alessio con messe di ringraziamento, novene propiziatorie per il felice esito della gravidanza e del parto, rosari comunitari e individuali e, per sopraprezzo, convocò all’uopo il gruppo di preghiera di cui era presidentessa.
Il nonno Mario vagolava in stato di semi incoscienza per il quartiere, chiedendosi come fosse stato possibile a alla sua
tusa potesse essere successa questa cosa.
La nonna Gabriella, dopo un breve momento di trionfante soddisfazione per aver constatato che l’apparato riproduttivo della figlia sembrava funzionare alla perfezione (la qual cosa era, con cadenza mensile, in cima ai suoi pensieri sin dall’età dell’adolescenza della figlia) cominciò ad organizzare la vita della figlia medesima (e conseguentemente del povero genero), tanto per cominciare per i prossimi nove mesi + 100 giorni, individuando le cose che dovevano essere fatte, chi doveva farle, il giorno e l’ora in cui ciò avrebbe dovuto accadere, fornitori, medici, consulenti, levatrici e bambinaie da consultare, convocare, ingaggiare.
Pagare, anche.
Fu un inferno.
L’Angela non sopportava nessuno. Tra una nausea e l’altra guardava il marito con occhio bovino, nella migliore delle ipotesi.
Pippo decise, allora, di prendere la situazione in mano. In fin dei conti lui era il marito. Il padre. Insomma: tutte e due le cose. Ma questa svolta movimentista non sortì esiti particolarmente positivi.
I suoi genitori, infatti, sostanzialmente lo ignoravano. Suo padre era troppo impegnato a godersi
l’idea del nipote (ché certo: di nipote maschio doveva parlarsi), e la madre era troppo presa dal fervore giaculatorio. La posizione del figlio era, pertanto, per loro, decisamente marginale. In alcuni, pochi, momenti di buon umore lo guardavano, al massimo, sorridendo con accondiscendenza, come si fa ai bambini per incoraggiarne la buona volontà.Il sentimento dei suoceri, invece, oscillava tra il furore organizzativo della nonna Gabriella, che sarebbe stata disposta ad asfaltare chiunque si fosse messo in mezzo ai suoi programmi, fino alla risentita ostilità quasi manifesta del nonno Mario.
Ma l’episodio che meglio rende l’idea delle dinamiche endofamiliari in quel periodo si verificò proprio il giorno prima della nascita del piccolo Vincenzo.
Approssimandosi l’Evento i nonni Carmelo e Carmela si erano stabiliti a Milano in casa del figlio “
che non si sa mai: capace che possiamo servire”.
Con la scusa di meglio assisterla, peraltro, anche la nonna Gabriella si stabilì in casa della figlia. Quantunque abitasse a meno di duecento metri, in linea d’aria, riteneva imprescindibile la sua presenza accanto (fisicamente, dico) alla
tuseta “che, si sa: la g’ha bisogno de la sua mamèta”. E si tirò dietro il nonno Mario, il cui malumore non accennava a placarsi. Per uno strano fenomeno di osmosi, peraltro, il malumore del padre si trasmetteva, amplificandosi, nella figlia, l’Angela appunto, che a sua volta tendeva, guarda caso, a scaricarlo sul marito.
Erano i primi giorni di luglio del 1959. Un torrido, umido, micidiale luglio milanese. Nel piccolo trilocale di Pippo e dell’Angela, sito nella periferia ovest della città, convivevano cinque belve feroci e una bestia confusa, il Pippo, che non sapeva che pesci prendere.
La casa fu trasformata in una specie di ospedale da campo.
Due valigie pronte per la bisogna, attrezzate in particolare con n.2 camicie da notte ricamate all’uopo dalla zia Franca (entità mitologica che nessuno aveva mai visto priva di uncinetto), nonché con copertina per il nascituro (gradito dono delle ricamatrici santalessesi coordinate da Ciccia Mondello) stazionavano costantemente accanto alla porta di casa. Non c’era un angolo in cui la nonna Carmela non avesse posizionato un’immaginetta, un lumino, una immagine sacra. Dovunque bende, fasce, catini, pitali, recipienti di ogni dimensione, ventagli e rosari.
Non si può capire quale inumano casino regnasse in quella casa.
Finché, alle prime luci dell’alba del 16 luglio l’Evento si annunciò.
“Pippo” sussurrò l’Angela “credo si siano rotte le acq…”
Non ebbe il tempo di terminare la frase, evidentemente propalata da misteriosi meccanismi fisici, che si scatenò l’inferno.
Tutte, dicasi tutte, le luci della casa si accesero all’unisono. La nonna Gabriella, in camicia da notte ma già con tanto di cappellino, fece irruzione nella stanza della figlia che neppure il più esperto marò del Battaglione San Marco. “Stai calma!” ripeteva meccanicamente alla figlia, spaventata per l’improvvisa irruzione più che per il parto imminente, mentre ne cominciava la vestizione.
Il nonno Carmelo, in pigiama e con seri problemi di incontinenza, saltellava per la casa gridando commosso “
U stissu iornu d’a Matri d’u Carminu!!” per l’eventualità che il nipote nascesse proprio il 16 luglio, giorno della Madonna del Carmine. La nonna Carmela gridava emozionata
“Matri: u picciriddu sta nascennu!!” mentre in ginocchio ululava le litanie dei santi. Il nonno Mario, in pigiama pure lui e sempre discretamente incazzato, urlava: “S
ant’Antonio dalla barba bianca famm truvà quel che me manca”, in tono evidentemente polemico verso la moglie che, in piena trance organizzatoria si era dimenticata di segnare il numero del taxi nel cartoncino accanto al telefono del corridoio, cartoncino che recava indicazioni utili per contattare decine e decine di fornitori e che adesso giaceva, inutile, per terra. E la cosa che più lo faceva irritare, oltre all’elastico lento dei pantaloni del pigiama, era che la moglie aveva ironizzato sul fatto che quello e solo quello (telefonare al tassista, al momento giusto) sarebbe stato il suo semplicissimo compito, lasciando intendere che più di tanto non si poteva chiedere ad un vecchio rimbambito come lui.
Più i minuti passavano e più l’intensità acustica dell’inferno di bestia che si era scatenato aumentava. Finché il Pippo, con un’autorità che nessuno gli conosceva, e della quale non vi fu più traccia sino alla morte, si fece finalmente sentire.
“
EPPERCIOOOO’?”urlò, sovrastando imprecazioni, preghiere e muggiti vari.
“
CIA’
FINITI TUTTI PARI CHI NON SI CAPIU CHIU’ NENTIII?”
Per un attimo un silenzio spesso scese sulla casa. Solo, in lontananza, i rumori della città ancora addormentata provenienti dalle finestre aperte.
La nonna Gabriella restò con la bocca aperta e le mutande della figlia a mezz’aria, e guardava il genero con aria stupita. Carmelo e Carmela si scambiarono uno sguardo incredulo. Al nonno Mario, anch’egli stupito e immobile, caddero i pantaloni del pigiama, che si erano allentati mentre, piegato per terra, cercava ‘sto maledettissimo di numero del taxi. La stessa Angela, sorpresa da tanto carattere, gettò uno sguardo bovino sul marito.
Pippo pensò di avere finalmente la situazione in pungo.
“SIGNORI MIEI: NIENTE SI CAPISCE” , lì dove il passaggio dal dialetto al volgare segnava una tacca in più verso una composizione della situazione verso standard di normalità più accettabili.
Gli sguardi sorpresi non cessarono. Si rivolse alla moglie:
“Tranquilla gioia: ci sono io adesso…”
Un attimo ancora di stupito silenzio.
“
Ma và a scuà ‘l mar!” rispose lei mandandolo inopinatamente a scopare il mare.
E tutti si sentirono in diritto di riprendere l’immane bordello che avevano sospeso.