Il 13 luglio 1943 Torino subisce un violento bombardamento. La città viene scelta per contrastare la risalita degli alleati dalla Sicilia. Secondo i piani britannici, bloccare un importante centro del nord potrebbe interrompere gli approvvigionamenti militari. Inizialmente gli strateghi pensano a Bologna, ma è troppo distante dalle basi aeree dei bombardieri.
Da un racconto di mio padre, che all’epoca aveva dieci anni: «Non ho sentito il sibilo della bomba che cadeva sull’asilo nido di Via Chatillon, a meno di cento metri da casa mia. Solo un’esplosione. Eravamo da poco scesi in cantina grazie al passaparola, perché le sirene aeree non avevano suonato dappertutto. Ricordo ancora lo spostamento d’aria che spazza il corridoio, stacca l’intonaco, sfonda le porte e si sfoga sulle scale, strappando i gradini di legno. Di quel momento conservo ancora la sensazione della polvere che mi impasta la bocca e che non mi lascia respirare. Ero a qualche metro dai miei genitori, mi chiamavano, era buio e non li vedevo. Non so quanto tempo sia trascorso. Poi ho sentito mani che mi stringevano, spruzzi di acqua in faccia, un soffio di aria fresca e, finalmente, ho visto la pallida luce dell’alba. Nessuna lesione, solo paura. Non siamo più scesi in cantina. Quando suonava l’allarme prendevamo delle coperte e andavamo nei prati di via Cigna e se proprio dovevamo morire, meglio che fosse all’aperto».
La cronaca
All’una e trentatré oltre 250 tra Avro 683 Lancaster, Vickers, Wellington, S29 Stirling e Handley Halifax decollati dalle basi a sud della Gran Bretagna sganciano 413 terribili bombe. Per la prima volta vengono lanciati a pioggia anche migliaia di ordigni incendiari: lo scopo è causare maggiore distruzione possibile. Gli aerei su Torino ci restano per ben settanta minuti. Alla fine, le vittime sono 792, i feriti 914 e ci vogliono decine di giorni per spegnere gli incendi. Il quadrilatero compreso tra corso Valdocco, corso Vittorio Emanuele II, il fiume Po e corso Novara è il più colpito. Nulla viene risparmiato: Palazzo Reale, Palazzo Chiablese, Palazzo Lascaris, Palazzo Ducale, piazza Castello, l’Armeria Reale, la Regia Università di via Po, via Roma, il municipio, il Cottolengo e anche il cimitero generale subiscono danni ingenti. Ma il danno maggiore lo patiscono le abitazioni civili. In corso Regio Parco muoiono 250 persone e al numero 26, tra le macerie di un rifugio, vengono trovati i resti di 67 donne, uomini e bambini. La più piccola è Maria Vernei di nove mesi.
Un sacco di frumento
Il racconto di mio padre prosegue così: «In qualche modo, come sempre, riusciamo a riprenderci. A fine luglio vado a spigolare il grano. Campo dopo campo, mia madre ed io raccogliamo un sacco di frumento. Trebbiamo le spighe frantumandole tra le mani. Un mulino a ridosso del ponte sullo Stura ci macina i chicchi e un fornaio amico cuoce qualche chilo di pane bianco. Ne diamo ai vicini e a un’anziana che ogni giorno si brucia il fegato con un quinto di grappa per raggiungere la figlia Rita, morta che non aveva ancora 20 anni. L’inconsolabile vecchietta è sposata con un muratore. Una notte i coniugi vengono prelevati dai fascisti: lui è tornato qualche giorno dopo; lei non è uscita viva dalla caserma di via Asti. Secondo il marito ha accelerato la morte accusandosi di un fatto mai commesso».
Nel 1944, i bombardamenti su Torino avvengono solitamente di giorno, per colpire meglio gli edifici di interesse militare, ma la cecità delle bombe distrugge anche quelli che c’entrano nulla. Per limitare danni e vittime civili, i bombardieri americani dell’UAFF, si fanno precedere da un caccia che traccia un cerchio di fumo bianco sull’obiettivo: chi può, si allontana dalla zona; altri scendono nelle fragili cantine-rifugio e sovente restano lì per sempre.
«Una notte - prosegue mio padre - le brigate nere e i tedeschi circondano l’isolato e abbattono la nostra porta a spallate. Ci fanno alzare dal letto e ci mettono contro una parete. Guardano dappertutto: nel guardaroba, buttano all’aria vestiti e coperte, tolgono anche un grande specchio dal muro sospettando che possa nascondere una nicchia. Hanno avuto una soffiata e cercano una trasmittente che opera in zona. Ci accusano di essere “spie bastarde…ci pugnalate alle spalle…morirete…”. Non guardano in una cassapanca dove c’è una radio Magnadyne 7 valvole che a mio padre serve per ascoltare i messaggi speciali di Radio Londra. Quando il gruppo se ne va, l’unico che ci fa un cenno di saluto è il tedesco che ci ha tenuto d’occhio e che per tutto il tempo della perquisizione è rimasto seduto sul cassettone, un piede a terra e l’altro sul coperchio».
"Lasa perde!"
Arriva il 1945 ed è inverno. «La stufa in cucina non riesce a dare calore. Un paio di volte la settimana andiamo a procurarci legna alle basse di Stura. Un giorno troviamo i militari della Wehrmacht che tagliano gli alberi. Prendono i tronchi per puntellare le trincee attorno ai ponti ferroviari e stradali di corso Vercelli. I tedeschi e i fascisti iniziano ad avvertire il soffio della resa dei conti e si preparano a tenere aperte le strade della fuga per lasciare alle spalle macerie. I fusti più robusti li caricano sul camion; gli altri li abbandonano. Io ne prendo uno tra gli scartati e lo porto fino al carretto che ho in affitto e che ho lasciato vicino all’autocarro tedesco. Il militare di guardia al veicolo mi dice qualcosa e afferra il tronco per portarmelo via. Lui tira da una parte e io sono deciso a non lasciarlo, dopo la fatica che ho fatto per trascinarlo fin lì. È un giovanotto con la barba rada cresciuta a chiazze. Più che un feroce teutonico sembra un martire del Rinascimento. Visto che fatica a spuntare quella specie di tiro alla fune, si toglie il fucile dalla spalla, lo imbraccia e mi spinge con forza la canna contro lo stomaco. Forse avrebbe premuto il grilletto se un uomo che passava in bicicletta non mi avesse mormorato: “Lasa perde!”. Mollai il tronco e mi misi a piangere».