«Ho scelta, eccome!» sbraitò il gentiluomo, sbattendo con violenza la mano aperta sul tavolo, «Non intendo assecondarti in questa follia. Non sulla base di un resoconto, scusami, così inverosimile da sembrare assurdo. Per Giove, Robert, è evidente che tu abbia subito un trauma, ma non ti aiuterò a… Mio Dio!»
Robert, fino all’ultimo, aveva sperato di risparmiare a Horace lo spettacolo ripugnante del suo cambiamento ma, sentendo che il tempo a loro disposizione stava per terminare, non poté far altro che scoprirsi l’avambraccio affinché l’amico potesse vedere con i propri occhi l’orrore in cui era precipitato. Horace balzò all’indietro, facendo quasi cadere la sedia, e si portò la mano alla bocca per soffocare un improvviso conato di vomito. Aveva distolto lo sguardo e preso a respirare affannosamente, ma Robert si avvicinò e lo costrinse a guardare.
Tutto l’arto appariva rigonfio, ma al contempo più robusto. La pelle, ispessita, aveva sul dorso un aspetto ruvido e chitinoso, ed era segnata da vene nerastre, eccessivamente in rilievo, e bitorzoli scuri. Quella dell’incavo, più chiara, era punteggiata da numerose pustole biancastre larghe circa mezzo pollice e quasi altrettanto sporgenti, lucide, bordate di rosso, in tutto simili alle ventose di un polpo, ma in lieve pulsazione, quasi stessero respirando lentamente o fossero protese a cercare nutrimento dall’aria.
Horace si ritrasse, inorridito, e Robert si affrettò a richiudere la manica della camicia.
«Perdonami, amico mio, ma non avresti potuto credere a quanto è successo senza vedere.»
«È... È pericoloso?» chiese Horace, quasi ai limiti della sua capacità di autocontrollo.
«Per usare un eufemismo» fece Robert, «Sebbene abbia bisogno di determinate condizioni per diventarlo.»
«Mi pare che tu sia ragionevolmente in te, ora» fece, «O mi sbaglio?»
«No, non sbagli, vecchio mio. Ma ciò si deve al fatto che sono l’unico portatore del contagio. Sembra che se non c’è almeno un secondo elemento, l’entità rimanga inattiva.»
«In attesa?»
«Latente, direi. Sembra che non esista finché non ha fame, e in quel caso la necessità di aggredire una vittima viva, umana o animale che sia, è in grado di toglierti la ragione. Sembra persino percepire quando la disperazione mi porta a decidere di commettere suicidio. Non capisco come possa farlo, ma ci riesce, e mi paralizza infliggendomi in tutto il corpo il dolore più acuto che si possa descrivere. Senza dubbio pervade ogni fibra del mio essere, incluso il sistema nervoso. È per questo che ho bisogno di te: questa cosa non mi permette di ucciderla, e tu sei l’unico a cui possa chiederlo. La verità è che non so per quanto tempo possa rimanere latente, e non voglio che prenda il sopravvento prima che possa trovare una soluzione.»
Horace prese un fazzoletto dalla tasca e si asciugò il viso, umido di sudore, quindi, lentamente, prese la sedia e vi si accomodò, intrecciando le mani di fronte a sé. Si sentiva di colpo spossato, sgomento, incapace di parlare o di ragionare, ed era incerto sul fatto di trovarsi nel mondo reale o in un incubo. Il suono di un bicchiere che si riempiva e l’odore del whisky gli giunsero come un salvagente gettato a un naufrago. Prese il bicchiere e se lo rigirò fra le dita per alcuni secondi, prima di sorbirne una sorsata, poi si sentì meglio a sufficienza per proseguire.
«Come sei arrivato in Inghilterra?» domandò.
«Su una nave che trasportava bestiame. Di giorno stavo in coperta, più per scacciare gli incubi che per altro. Di notte, più o meno una ogni cinque, scendevo nelle stiva e mi nutrivo. Pare che il morbo non si trasmetta agli animali.»
D’un tratto Robert strinse i pugni, come in risposta a una fitta improvvisa e, barcollando, si mise in piedi, nascondendo il volto contratto e sofferente. Horace si alzò a sua volta, ma resistette all’impulso di soccorrere l’amico.
«Robert...» mormorò.
«Non c’è più tempo... Dobbiamo andare» riuscì a rispondere Wax, mentre si avviava a fatica verso l’uscita.
In nome dell’antica amicizia che lo legava al suo socio, Horace depose ogni personale timore e si affrettò a raggiungerlo.
«Ti porto a Londra. Lì sarai curato da veri medici, Robert. Mi rifiuto di credere che questa cosa non si possa gestire con il ricorso alla scienza.»
«No...» protestò l’amico, con voce ormai ridotta ad un sussurro, «Non posso contenerlo ancora a lungo. Vuole cibo, o nuovi corpi da abitare... Dobbiamo uscire... Fare ciò che va fatto.»
«Adesso andiamo, Robbie. Resisti ancora un po’.»
«Ti aspetto nel vicolo dopo l’emporio» sibilò Robert Wax, deciso ma, fatti alcuni passi fu colto da una violenta crisi e stramazzò a terra.
Allarmato, Horace si chinò sull’amico dolorante, chiedendo al contempo, e a gran voce, di far chiamare una carrozza.
Prima di svenire, Robert udì il rumore dei passi di un uomo, la porta del pub che si apriva, e un acuto fischio di richiamo subito dopo. Poi più nulla.
Eseguite le istruzioni ricevute, George rientrò in fretta e furia e andò a sincerarsi delle condizioni del suo cliente.
«Posso fare altro?» chiese.
Horace non rispose e rimase chino su Robert.
«Ma guarda, a quanto pare mi sono sbagliato nel pensare che quest’uomo fosse un magnate o un latifondista» pensò George. D’altra parte, si disse, come avrebbe potuto stabilire che il gentiluomo fosse un medico, così a prima vista? Ma il modo in cui ora prodigava le sue cure all’uomo svenuto, e l’uso di quella sostanza dall’odore pungente per farlo riavere, lasciavano davvero pochi dubbi a riguardo.