Erano lì Elena e Paride.
In quel grande appartamento del centro, comprato con un mutuo concesso ad un tasso d’interesse altissimo, ma soprattutto perché Elena aveva accettato di fare un po’ la smorfiosa con l’impiegato.
Nessuno poteva resisterle.
Quando passeggiava per strada, il venti percento degli uomini che la incrociava si chiedeva se quella pelle luminosa, quegli occhi languidi, quel vago profumo di rose e lillà che si poteva annusare passandole accanto, fossero dovuti ad una splendida notte di passione appena trascorsa. Il restante ottanta si chiedeva come sarebbe stato trascorrerne una con lei.
Inutili i tentativi di sembrare comune: a trentacinque anni il suo splendore era intatto, dorato, fulgido, quello di un campo di grano nel massimo del suo rigoglio, come e più di quindici anni prima.
Quella bellezza, una condanna.
Per anni aveva significato dover lavorare il doppio, per farsi prendere in considerazione come donna intellettualmente valida. Il poco spessore delle persone non riusciva a vedere che oltre l’involucro
perfetto vi era una mente fine, acuta, brillante. Quanto ne aveva sofferto! Quanto aveva penato il suo cuore nelle notti in cui arrivava a pensare lei stessa che non valesse nulla oltre la sua bellezza!
Poi però lentamente, ma con la forza e la caparbietà di una goccia d’acqua perenne che non si stanca finché non ha scavato un solco, si era affermata, avviandosi ad una brillante carriera di cronista.
La carriera. Poi l’amore.
Paride. Bello, almeno quanto lei. Di successo, almeno quanto lei.
L’arazzo della loro vita
perfetta si andava componendo, aggiungendo fili di tonalità sempre più splendenti, senza mai una traccia d’oscurità o un filamento d’ombra.
La passione travolgente, carnale, irresistibile, coronata dall’affinità intellettuale, dalla condivisione delle passioni, dei gusti, della visione della vita. Il ricevimento di nozze sarebbe rimasto negli annali come esempio di
perfezione del genere. Ogni particolare era
perfettamente al suo posto, gli sposi accecanti nella loro suprema…
Perfezione. Poi i figli: due creature angeliche, quasi irreali ed ovviamente
perfette.
La loro vita era così, un castello dorato dove tutto era al proprio posto, dove persino i petali di rosa cadevano dal loro mazzo solo per creare ancora più suggestione nell’ambiente.
Ma ora erano lì, Elena e Paride. In quel grande appartamento del centro, comprato con un mutuo concesso ad un tasso d’interesse altissimo, ma soprattutto perché Elena aveva accettato di fare un po’ la smorfiosa con l’impiegato.
Era inevitabile, sarebbe successo. Da quella volta in banca Paride aveva dovuto cominciare a fare i conti con un mostro terrificante, che aveva sempre abitato le sue viscere più profonde ma che aveva sempre tenuto a bada, pensando che nessun altro uomo poteva meritarsi le attenzioni di quella donna
perfetta, che solo a lui spettava.
Poi le occhiate che ricordava avevano cominciato a tormentare le sue notti, ogni uomo che la incrociava era un potenziale amante, ogni telefonata quella in cui lei prendeva un appuntamento con un altro.
Ed ora erano lì, Elena e Paride. In quel grande appartamento del centro, dove più nulla era
perfetto.
Dove Elena era rannicchiata accanto alla parete del salotto, tra mille pezzetti di cristallo e un mazzo di narcisi rovinati.
Si nascondeva il viso, Elena. Nascondeva il nero diffuso su tutta la sua guancia sinistra e che il rivolo di sangue che le fluiva dal labbro sottolineava con crudeltà, quasi fosse la penna rossa dell’antipatica professoressa di greco su una versione in cui non hai capito nulla. E dove Paride di fronte a lei piangeva, distrutto dal suo stesso gesto, senza riuscire ad alzare lo sguardo su sua moglie.
La
perfezione era andata in frantumi come il cristallo del vaso che aveva scagliato all’ennesimo interrogatorio, il cui epilogo era stato terrificante.
Too much love will kill you, cantavano i Queen. Entrambi in quella sera d’ottobre, per motivi differenti, si auguravano il contrario.