Questa maledetta città non dorme mai. Questa maledetta città puzza di monossido ed indifferenza.
Questa maledetta città sembra me, che ormai non dormo più. Che da giorni puzzo di fumo e disinteresse. E da questa altezza, da questo palazzo, questa maledetta città la vedo, la sento e la annuso fin troppo chiaramente.
Stanotte, più che mai, i miei occhi scurissimi sono paradossalmente sbiaditi, privi di me, scavati da un'abissale e buia profondità di cui io stesso non riesco a vedere il fondo o l'origine.
Tu.
Sì, dico a te. Resta un attimo, non ruberò molto del tuo prezioso tempo.
Permettimi di scegliere un brano per entrambi, "Blue in green", di Miles Davis: ho bisogno di quella flemma, di quella lentezza.
Non ti chiedo di apprezzarlo, o di capirmi. Non ho più certe assurde ed inutili presunzioni.
Non trovi, però, che il mondo scorra così veloce da non darci il tempo di fermarci un attimo a pensare, a riflettere, a respirare? Adagiarsi su sé stessi è diventato un lusso dannatamente costoso, non trovi?
Ho bisogno di quella lentezza, di quella sublimazione solenne e sentita dell'attimo. Qualcosa di concreto, di tangibile. Qualcosa di mio.
Le vite di tutti scorrono in bytes davanti ai miei occhi, persino quando li incontro lì fuori. Persino la mia, senza il mio volere, scorre in bytes davanti ai miei occhi sbiaditi. Le vite di tutti.
Vedo su ogni singola presenza il ghigno latente e beffardo di un'opaca, anonima assenza.
Ci vedo correre, folli ed amorfi, verso costruzioni gelide e disumane edificate sull'etica dell'arrivismo, sul conformismo, sul culto dell'estetica, sul consumo, sulle idee che ci costringono a disegnare nelle ambizioni e nelle velleità.
Ci vedo correre e sudare inutilmente, sgomitando, irrompendo nel nostro o nell'altrui sangue, nei nostri sacrifici, nelle piccole e grandi guerre, in un mucchio di battaglie perse contro la nostra stessa natura.
Tutto ciò mi fa mancare l'aria, costringendomi ad un'apnea infinita. Mi fa annaspare, sempre di più. Un'apnea ontologica a cui non voglio e non riesco più ad adattarmi.
Dove sono io? In tutto questo sordo caos che ne è rimasto di me? E tu? Tu dove sei? Dove sono tutti? Non lo so.
So, però, certamente, che non ci sono più io. I miei frammenti saranno sparsi e calpestati chissà dove. In quali menti. In quali progetti. In quali imposizioni. In quali obblighi.
A cosa è servito ogni centimetro guadagnato? A cosa è servito ogni acquisto? A cosa ogni risultato? Quanto soffrirà mia madre, che dorme inquieta di là, da sola? E i miei amici, la mia ragazza? Essi mi perdoneranno gli esami mancati, i lavori persi, gli sforzi inconcludenti o i momenti non goduti? Perdoneranno la mia incapacità di essere ciò che vogliono che sia?
Non è, però, sempre stata colpa mia, ma ti sorprenderai. È tremenda e spietata la facilità con cui risolvo e dirimo ognuna di queste domande, ogni dubbio, ogni esitazione: mi basta abbassare gli occhi, poi chiuderli per qualche secondo, e dimenticarmi dell'asfissia.
Perché stanotte mi è chiara la differenza che intercorre tra esistere e vivere. Mi è chiara come la città che vedo dalla mia finestra spalancata.
Non mi guardare così, non cercare di fermarmi. Tu, come altri, mi ricorderai al massimo con qualche post su Facebook, con qualche parola di troppo. Mi ricorderai per qualche vago dettaglio. Mi ricorderai credendo di conoscermi, di avermi conosciuto.
Il punto è che in tutta questa rumorosa entropia è impossibile che ciò accada. Parlerete di me, con le vostre congetture, sfiorando con labile pensiero cosa fossi, terribilmente lontani da chi, invece, fossi. O più semplicemente da chi avrei voluto essere.
E assolvimi se ti ho chiesto di restare, ma in realtà non mi fido di te. Questo è solo un armistizio con il mio spirito, l'ultima, generosa confessione di una persona che ha capito tutto o niente.
Tutta la mia fiducia l'ho posta nella gravità e nell'asfalto, stanotte.
Perché per la prima volta sento davvero la mia vita tra le mani ed ho bisogno del salto che riempe i polmoni, che spezza l'apnea facendomi respirare di forza.
Perché ho bisogno di quella lentezza che se cerchi da vivo, oggi, ti ucciderebbe comunque.
Perché ho bisogno di qualcosa di mio. Perché ho bisogno di me.
Ora girati, esci, guardati attorno ed esisti. O, se ci riesci, vivi.
Lo ricordarono, lo immaginarono, supposero. In troppi, in pochi.
Lo ricordarono per la sua forza, per la sua vulnerabilità.
Provarono a ricordarlo per chi fosse. Lo ricordarono per cosa fosse.
Lo ricordarono per il sangue e le ossa.
Lo ricordarono su qualche giornale, su qualche post su Facebook.
Lo ricordarono finché il tempo e l'attenzione permisero il ricordo.
Ma il mondo scorre veloce, ancor più veloce su quel palazzo, sull'asfalto di quella strada, su quelle persone, sui pensieri, su quella città che non dorme. Su di te.
Il mondo, e gli altri, continuano inesorabilmente a scorrere veloci, troppo veloci. Su tutto. E su tutti.