Così stava in piedi.
Ritto nel corridoio di quel mezzo roboante e terribile. Quel corridoietto striminzito di quell’aereoplano enorme.
Non poteva stare fermo, non poteva stare seduto. Perché non ci credeva lui, che il mezzo lo portasse in un altro posto, e non aveva mai creduto a chi diceva di trasformare il mondo velocemente. Non aveva creduto a chi tornava dall’inferno per un fiore rosso e non aveva creduto a chi viaggiava in un letto. Non aveva mai creduto a chi si vantava di aver raggiunto la felicità, come non aveva mai creduto all’amore. Figuriamoci se avrebbe mai potuto credere agli aerei.
Tuttavia, voleva provare la sconfinata soddisfazione che gli avrebbe potuto procurare il dire agli altri che sì, era vero! C’era stato lui su un aereo! Ma non l’aveva portato da nessuna parte! E di fidarsi di lui ché solo gli insetti e gli uccelli possono volare.
E quindi Blaise aveva deciso di salire su quell’aereo senza destinazione. Aveva sempre una parola di conforto per quelli che avevano delle storie da raccontargli, e con una parola riusciva a racchiudere ognuno in una fragile bolla di sapone. Fragile, ma leggera e delicata come il profumo del glicine nel prato, tanto leggera da sembrare irreale. Ma gli altri gli piacevano quando riusciva a scoprirli soli, a parlarci davvero, nel silenzio. Perché a guardarli vivere gli altri erano sconvolgenti, folli, nevrotici, meccanici e insensati come vulcani estinti. Volevano fare tutti le stesse cose, avere tutti la stessa vita, e Blaise non li capiva. Non capiva cosa ci fosse di tanto emozionante ad avere tutti la stessa banalissima vita, fatta di indescrivibili fandonie. A vivere tra tutte quelle cose, tante da morire d'inutiità. Per questo guardarli ora senza destino, come lui, lo faceva ridere.
Ma d’un tratto sentì rombi potenti. Percepì un’impennata rapida, ed ebbe la netta impressione di stare levandosi, sopra la terra. E fu il panico. Balzò in piedi. Non urlò, non disse nulla, ma balzò in piedi. Scosse la testa di colpo e si strinse alla sedia per non scivolare anche lui nel vorticoso inganno del movimento. Cosi stava in piedi, ritto nel corridoio di quel mezzo roboante, terribile, ferroso. L’infinità del pensiero lo appesantiva e lo avrebbe schiacciato senza nessuna possibilità di respiro. Vedendo Blaise attonito nel corridoio della sua esistenza, un assistente di volo lo richiamò preoccupato per farlo sedere. Ma, com’era prevedibile, non ricevette risposta. Dovette alzarsi e raggiungerlo, cercando di tranquillizzare frattanto i passeggeri innervositi dalla vicenda.
- Mi scusi signore, deve immediatamente sedersi!
- Non posso.
Blaise era assolutamente serio.
- No signore, mi scusi, devo insistere. Non può stare in piedi per nessun motivo.
Ne va della sicurezza di tutti noi presenti...
L’ultima frase la pronunciò quasi bisbigliando, sommessamente. Doveva rimanere tra di loro.
- Ma io... non posso!
L’assistente cominciava a spazientirsi. E per di più non capiva, non capiva affatto, non poteva capire. Lo vedeva immobile, fisso, incredulo. Gli occhi sgranati brandivano una sensazione di repentino sbandamento. Le sopracciglia si erano alzate e leggermente incurvate in una posa involontaria... La fronte tesa ad incorniciare uno sguardo divenuto indescrivibilmente vuoto. Il volto era un ritratto eloquente, e bastava a percepire l’insicurezza che aveva colpito il cuore dell’uomo. Insicurezza che in breve era riuscita a trasformarsi in puro terrore.
Il passato, gli aerei, la vita, i suoi ideali, le sue convinzioni, l’universo intero. Gli sembrava lo stessero stritolando in un pugno inarrestabile, sempre più stretto, sempre più potente. Si sentiva il cuore piccolo, piccolo come una biglia, contratto dallo stupore.
D'un tratto s'accorse di avere qualche decina di occhi addosso, roteò volontariamente i suoi e incontrò uno sguardo tanto intenso e brillante da non averne mai visti di simili prima. Sguardo di donna, languido e intenso. Forse la vibrazione sentita in quel preciso, singolo istante, lo persuase a gettarsi sul sedile senza forze, come esanime.
Parlava a se stesso. Tentava di rasserenarsi. Tentava di chiudere gli occhi -e il cuore- per non vedere, non provare. Pareva tentasse di trovare un nevrotico equilibrio. Come in un’epifania Joyciana. E gli sembrava di impazzire perché non si era mai sentito così. Non aveva mai conosciuto una sensazione così infinita. Un buco nero che gli risucchiava l’aria e la mente lasciandolo immobile.
Era fermo, mentre sotto di lui e tutt’intorno c'erano nuvole, spazio, tempo. La vita scorreva.
La vita scorreva e lui avrebbe potuto persino percepirla forse, fissando le inarrestabili lancette sul suo orologio da tasca. E si ripeteva che era uno scherzo, una beffa. Ma sapeva bene che quel tentativo di autoconvincersi, oltre che fallimentare, sarebbe stato per lui improponibile almeno quanto l’idea stessa di essere ancora in vita.
Dopo una mezz’ora (un’inesistente, bugiarda mezz’ora di orologio) lui era ancora lì, intento a inventarsi possibili spiegazioni per quello stupido scherzo.
Guardingo osservava, quando di colpo si ritrovò di fronte una sagoma meravigliosa e percepì il sottile filo che li univa. Lei, elegantemente poggiata su un sedile rivolto verso i passeggeri, pareva non avere sostanza. Era come esente da leggi fisiche. Liberata dalla forza di gravità. I capelli mossi le si spargevano sulle spalle come fluttuassero nelle profondità dell’oceano. Erano ramati, e riflettevano ogni luce, luminosi come specchi. Lo spiava in silenzio, e chissà ormai da quanto. Lo vedeva riflettere, e seguì il suo sguardo mentre si posava su di lei. Lo intercettò, e si incrociarono. L’intrigo fu subitaneo e potente, meravigliosamente rapido, emozionante come un incipit da Oscar.
In quel solo attimo lei lo salutò, lo conobbe, lo comprese, lo cullò, lo fece suo con la foga del furore, lo sentì fremere, lo vide sconfinare, lo strinse, l’amò.
L’ingenuità di Blaise non gli permise di realizzare subito cosa fosse successo. E rimase lì, ad aspettare, perso nel suo mondo falso, di illusioni quanto mai vere.