Lascio un foglio bianco. Perché è poetico. Ma anche perché è più comodo scrivere di qui. Ecco. Poesia scassata in una frazione di secondo.
Lascio un foglio bianco. Come si fa quando qualche cosa finisce, termina di esistere. Indipendentemente se sia stata una decisione nostra o di qualcun altro. Forse uno sgarbo. Togliendo a quella pagina la malinconia delle cose perdute. Forse solo stanchezza. Togliendo a quella pagina il sorriso. Ma non è questo il caso.
Ivan, poeta di strada, ha scritto su un muro: “una pagina bianca è una poesia non scritta”. Mi piace di più.
In realtà non ho nulla da dire e comporrò frasi per il gusto ultimo di scrivere senza dir niente. Cimentarsi in un arte, qualunque essa sia, dovrebbe nobilitare. O quantomeno esercitare la mente.
Mischio le carte come un eccellente baro e mi tengo l’asso nella manica. Quello di picche. Serve sempre. Il “due” lo lascio nel mazzo. Non si sa mai.
Abbasso il livello. Facciamo un po’ di pettegolezzi da panchina. Esercizio che mi è tanto caro e che mi tira fuori spesso dall’imbarazzo. Lo so. Non è leale. Vi faccio l’occhiolino, non prendetemi sul serio. State a vedere.
“Incidenti amorosi”
Coppia sui cinquanta. Lui una gamba ingessata. E’ da là in fondo che lo vedo borbottare. La moglie cammina senza neanche voltare la testa dalla sua parte. Sguardo fisso come un ammiraglio e, come vuole la migliore tradizione, petto in fuori, pancia in dentro. Come un ammiraglio che guarda ila tempesta in lontananza e il mare che si fa grosso. Quando giungono nei miei pressi posso udire la conversazione, tutta solitaria, di lui. Si lamenta. Gli fa male la gamba ingessata. Un dolore che parte da lì e vien su fino a qui. Mi fa male anche il ginocchio a camminare così tutto storto. E la schiena. E il braccio con queste stampelle. Mi volto poco dopo per vedere se l’ammiraglio almeno lo degna di uno sguardo. Niente. Cerca, con estrema difficoltà nella borsetta che porta a tracolla, qualche cosa. Forse astrolabio e sestante. La cantilena del marito è ininterrotta. Ora dice che ha mal di testa. Così conciato per un mese. E chissà dopo la fisioterapia che male farà. Non ci voglio pensare. Il capitano di vascello lo guarda per un istante. Sguaina da sotto il golfino portato sulle spalle, il braccio destro. Lo fa roteare per aria come una sciabola e, con tono feroce, fa fare al marito, con una sola frase, l’illegale giro di chiglia. E io cosa dovrei dire? Che è pure colpa tua. Il braccio, coperto da candide fasce e pastella da ospedale, è ingessato.
“Indiana Jones e il castello maledetto”
Trio. Due uomini e una donna. Guardateli. Lei. Pinocchietti verde slavato, ciabatte rosa, t-shirt bianca aderentissima. In evidente stato di gravidanza, ostenta la pancia mettendola a nudo. Il di lei lui. Precisissimo. Scarpa di cuoio con lacci maron. Pantaloni attillati maron, ton sur ton. Giubbino in pelle leggera di un vago beige. La sciarpa mille righe sui toni del maron e del beige è appoggiata con una certa cura sul collo e sulle spalle. Tutto di taglio non dozzinale. Si vede. A tracolla una borsa di cuoio piuttosto grande. Chi li avrà messi insieme questi due nessuno può dirlo. Ora guardate il terzo incomodo. Bermuda, t-shirt, infradito e zainetto in spalla. Indiana indica e parla. Spiega, e indica ancora, un punto non bene definito laggiù in fondo da qualche parte. Ad un certo punto apre la borsa e ne tira fuori un plichetto che spiega abilmente in dodici mosse diventando grande un metro quadro. La famigerata cartina. Siam fortunati vengono verso di me per appoggiarsi al muretto. Con accento milanese ed erre moscia: si, Bellinzona, Stresa, e indica. Luino, la Svizzera, e indica. Sempre un po’ in maniera vaga, per la verità. Il terzo incomodo annuisce, segue il dito che indica con aria ebete. Deve aver chiesto un’informazione ed ora non sa più come districarsi da Indiana, non dai paesi affacciati languidamente sul lago. E lui vorrebbe continuare la sua bella passeggiata che è da domenica scorsa che ci pensava. Se il tempo fosse stato bello. Avvicina la meta e domanda, ma il castello, indicando lui questa volta. Indiana annuisce sicuro. Si, si, è ancora Piemonte. No, Indiana, la Rocca di Angera è in Lombardia. Tutta colpa delle cartine dell’ufficio turistico. Li vogliamo aggiungere o no, i confini politici?
Continuo a sbadigliare anche se è quasi ora di pranzo. Sarà il caso di bere un altro caffè.
Cambio idea e volto sulla brodazza. Cappuccino con latte di soia.
“Cucina tipica dell’Est Europeo”
La signora del bar appoggia con decisione e, la stessa forza che metterebbe Ray Misterio per atterrare il suo avversario, la tazza e il piattino sul banco metallico facendo traballare pericolosamente il cucchiaino e aprendomi uno squarcio nel cervello come uno sguardo nel cielo dell’Apocalisse. Penso immediatamente che, anche se sarà bollente, lo berrò d’un sorso senza battere ciglio a costo di finire nel reparto grandi ustionati. Non è aria. La conversazione, già iniziata con la cameriera, si sposta inverosimilmente su di me che ho appena varcato la soglia. Ma cosa avrà da tirarsela, mi domanda. Io la guardo con lo stesso sguardo ebete del terzo incomodo di prima. E continua, la madre, la sorella e il figlio. Che non so neanche se è di quello là. Di quel pollo che si è fatto arrostire per bene. Rassegnata volgo lo sguardo oltre le mie spalle. Scruto con pigrizia lo stuolo di tavolini per individuare quello giusto. Vedo una signora bruna dai tratti chiaramente tipici della Sacra Madre Russia, una ragazzina, un bimbo di tre o quattr’anni e il pollo arrostito. Di mezza età, impomatato, in perfetta tenuta marina. Bermuda, polo e mocassini da vela. Di spalle scorgo solo una cascata lunghissima di biondi capelli. Da sirena. Torno alla barista senza proferire verbo. E lei, consapevole del fatto che ho capito di chi sta parlando, incalza. Sai cos’è? Che queste stanno zitte, fanno tutto quello che gli dice il marito. Là non hanno niente, vengono qui e trovano il pollo da arrostire. Aridaje. Glielo dite voi che son vegetariana da secoli?! Si, poi al momento giusto, quando si son sistemate, zac! Li mollano e si beccano un sacco di soldi. Suona un telefono al tavolino della cuoca russa. La bella bionda si gira per cercare nella borsetta attaccata alla sedia. Un viso d’angelo risponde in una lingua dura e sconosciuta. Si alza, il miniabito torna al suo posto, diciamo almeno a coprire le chiappette tonde e perfette dei vent’anni che il vestito trasparentissimo e la culotte bianca che si vede nella sua interezza, non lasciano nulla all’immaginazione. Si allontana. Io la seguo con gli occhi. Magra, alta. Perfetta. Mi rigiro verso la barista che la scruta con aria maligna. Cosa avrà da tirarsela lo leggo ancora nei suoi occhi. Forse non è mai elegante ostentare ma, come la mettiamo noi che non abbiamo quelle chiappe e nemmeno sappiamo cucinare?