Così, una volta entrati nella sagrestia, volsero i loro passi verso una grande parete candida con tre grandi finestroni, ciascuno con la sua bella grata di ferro, mancava solo la scritta: “La preghiera vi renderà liberi” e una foto del Ku Klux Klan.
Dai finestroni penetrava la luce che andava a battere su una panca dove si sarebbe dovuto sedere il confessore e un inginocchiatoio per il penitente, era quello che allora fungeva da confessionale nella chiesa di San Patrizio.
L’uomo si inginocchiò e prese a parlare quando fu interrotto dal prete che bofonchiò qualcosa che non riuscì a comprendere.
«Come?»
«Segnati animale!» sbottò il confessore, poi, resosi conto del suo tono si corresse: «Ehm… volevo dire “Signati figliolo”… beh!... ecco… ricordati, che sei sempre nella Casa di Nostro Signore» terminò placidamente il prete unendo le grosse mani e volgendo gli occhi verso l’alto.
Obbedì, baciò la stola e mormorò qualche frase di rito poi guardò l’orologio.
«Che disse qualcosa?» chiese l’uomo.
Padre Vincent guardò torvo il penitente, mentre le orecchie gli divennero scarlatte, cercando di comprimere la rabbia che gli ruggiva in corpo, prese un profondo respiro e riprese a denti stretti e abbozzando un sorriso: «Dunque caro figliolo, raccontami i tuoi peccati. Quanti boni cristiani ammazzasti ultimamente?»
«Padre Vincent, ma che minch… ehm… Ma che và diciendo?» disse correggendosi.
«Ma scusa, tu non sei Gerolamo La Mantìa, del clan di Don Calogero u’ Spadazzaru, il capo famiglia mafioso?» s’informò il sacerdote.
Don Calogero, così definito per via del suo modus operandi, perché ogni volta che c’era un delitto di mafia o un regolamento di conti, chiedeva ai suoi sicari di lasciare una carta da gioco con disegnata sopra una spada, una specie di riconoscimento, un marchio di fabbrica: “Made by u’ Spadazzaru”, così al commissariato non si confondevano.
«Si!» rispose Gerolamo. «Ma io mica l’ammazzo la gente. Si Vossìa mi permette, io un modestu banchiere della mafia sugnu, il mio compito è quello di pulizziare il denaro fituso» spiegò al suo confessore facendo spallucce.
«Ah si! E come è che fai a pulizziare il denaro sporco d’ u’ sangu Gerò! Me lo vuoi contare?» chiese il padre avido di conoscere questa nuova dottrina.
«Eh comu fazzu, è semplicissimu: le banconote le metto in lavatrice e le monete nella lavastoviglie» rispose Gerolamo al neofita.
«Ah! ah! Diavolo d’un Satanasso che Bestia ca’ sì! Ecchice qui, tu sei apposto, si chistu è ‘o peccato tuo, a mia che mi vieni a contare? Io l’assoluzione te la posso dare solo se mi confessi un peccato mortale. Capisti?» concluse Padre Vincent roteando il grosso polso.
«E che è colpa mia si lu sangu lo schifio. Io, nu cristianu non ci riesco ad ammazzarlo» protestò il penitente.
Il prete si accigliò, socchiuse gli occhi guardandolo pensieroso poi: «Mai picchiato tua moglie? Uno scapellotto di sfuggita? No!?»
«Nenti».
«Ti sei mai ubriacato?»
«Astemio sugniu!»
«Ti divertisti cu’ le fimminazze al burdello?»
«Nonsi!».
Padre Vincent si alzò grattandosi la fronte in preda allo sconforto, sul bordello ci aveva quasi sperato, ma niente, non sapeva cos’altro chiedere, poi all’improvviso, indicandolo come un inquisitore: «A-ah! Ho trovato: falsa tistimonianza».
Gerolamo lo guardò per un attimo confuso, ci pensò un po’ su, poi: «Ntsu! Ancora no, sa i pro-cessi sono lunghi e prima che mi vengono a chiamare “n’ha da passà acqua sutta i ponti. Assaj!”»
«Gerò! Ma nienti nienti ca’ mi stessi pighiando nu poco p’ ‘o culo?» chiese mettendo il suo faccione da bue muschiato a pochi centimetri dal naso di Gerolamo.
«Padre Vincent!» esclamò l’uomo esterrefatto.
CONTINUA...
Santiago Montrés