La cena era stata lunga e pesante ed ora, sul bordo del letto stropicciato, faticava perfino a deglutire.
Stava piegato su un fianco, il braccio destro tutto sotto il corpo, lo sguardo che tentava inutilmente di decifrare, da dieci minuti, alcune righe spezzate sul mogano dell’armadio.
A volte parevano volti, altre strade, e ancora parole in una lingua con la quale si potevano esprimerere solo maledizioni.
L’orologio digitale sul comodino segnava le due e tredici minuti. Pulsava la luce rossa della scritta, così preponderante nel buio della stanza. Dalle persiane, quasi del tutto chiuse, strisce di luce, schegge di suoni lontani, per lo più automobili, cani.
Margherita sarà in giro.
L’unico suo abito rimasto in casa se ne stava ben piegato sulla spalliera della poltrona dorata, quella che lui le aveva regalato, senza entusiasmarla come avrebbe pensato. Era un abito semplice, stampato a fiori, ma con la capacità sovrumana di mantenere il suo profumo, un misto di deodorante, lucidalabbra, shampoo per capelli, primavera.
Da quando aveva preso a fumare in camera, prima se l’era proibito, sapendo a che a lei dava fastidio, quel profumo si stava attenuando, sepolto sotto la coltre stantia e spessa del fumo di tante sigarette.
Passò una sirena, pareva dover rompere i cristalli dei vetri, e far risvegliare persone. Pensò che qualche vecchio sarebbe di sicuro accorso al balcone, a scrutare.
Ma non sentì porte aprirsi, finestre spalancarsi. La via era silente come prima.
Aveva mangiato roba surgelata, dando fondo alle scorte. Aveva mangiato tardi, appena tornato da lavoro. Non aveva acceso la tv, ma il computer.
Aveva rivisto foto e riletto mail. Era rimasto vestito tutto il tempo, e la piega degli abiti pesanti addosso lo faceva grattare.
Quasi le tre.
Era insonnia quella?
Era clinicamente lo stato di chi non può, non riesce a dormire? Non sapeva dirlo.
Poteva dare la colpa alla digestione, ai pensieri latenti nella scatola cranica, in fondo al petto. Non aveva sonno. Non vedeva l’ora che la notte finisse.
Ma era ancora notte. Piena notte.
Sentì il ronzio del frigo. Un brusio costante di macchina, e immaginò i limoni, lo yogurt, l’acqua nelle bottiglie di plastica dentro quel freddo perenne. Gli venne un moto di nausea.
Si alzò. Accese la luce del bagno e si chinò sul water, ma non fu in grado di vomitare.
In bagno, la finestrella che dava sul balcone era socchiusa, e proveniva un filo d’aria che gli fece bene. Spalancandola, avvertì il profumo del buio, tempestato da lampioni in fila. Stette un po’ a guardare fuori.
In lontananza, sopra i palazzoni della piazza, la sagoma molle delle colline sembrava avvolta da un nero più chiaro.
Poi passò un uomo. Era vecchio, malmesso, forse ubriaco. Istintivamente si ritirò dietro il rettangolo della finestra, ma il vecchio, attraversando con fatica e lentamente le strisce pedonali alzò lo stesso lo sguardo e lo colse, il petto nudo, i capelli arruffati, a spiarlo. Non disse nulla, ma fece un gesto con la mano.
Chiuse la finestra e tornò in camera.
Le quattro e mezza.
Tre ore ed era ora di svegliarsi, lavarsi, vestirsi, bere un caffè, andare a lavoro.
Tre ore. Ancora notte.
L’assalì una rabbia debole, se non avesse dormito un poco, sarebbe stato un cadavere a lavoro, lento, svogliato, sofferente.
Tentò. Niente da fare.
Il sonno, che lui immaginava come un liquido inodore e senza peso, non ne voleva sapere di riempirlo, di cospargersi sul suo corpo, sulle coperte e sul materasso, e infilarsi in ogni poro della pelle, nelle narici, nella bocca, negli occhi.
Sentiva ogni sua parte attiva, stanca sì, ma lucida, tremolante. Ci rinunciò.
Quella notte stava per finire, d’altronde.
Il pensiero lo colse come fosse un ricordo lontano, uno sprazzo di infanzia, o di adolescenza.
Morire. Dormire senza sognare. Sparire.
Nessun piano, nessuna dinamica da elaborare, nessuna conseguenza soppesata e valutata.
L’idea del suicidio era soltanto l’idea del dopo. Di una pace anomala, ma rassicurante.
Non si sarebbe mai ammazzato. Era attaccato ai suoi dolori, anche se non l’avrebbe mai ammesso. Alla fatica di ogni giorno, alla solitudine, alla mancanza di Margherita. Al tempo che rulla e sbanda e inghiotte.
Solo la notte, come è ovvio, tutto assumeva contorni più netti, tendeva ad invadere il campo dei pensieri, ed ogni cosa sconfinava, addensandosi dolore su dolore, a farsi massa indistinta.
Ma la notte, che ancora era alta e piena e silenziosa, non poteva durare che altre due ore.
Chiuse gli occhi. Finse di dormire.
Pensò che così facendo sarebbero arrivate quelle immagini sconnesse e vorticanti, quelle prima dell’incoscienza. Le evocò, forzando la mano.
Ma la sua consapevolezza non sapeva che proporgli stereotipi di sogno, facsimili di visione.
Tutto era troppo logico, coerente. Volti, nomi, date, luoghi, colori.
Cambiò strategia. Provò ad anticipare il tempo, seguendo il tragitto che da lì a poco avrebbe fatto, una volta fuori di casa.
Si arrese al semaforo sotto il lavoro.
La sveglia stava suonando.
Ebbe un soprassalto di gioia, e si alzò di scatto.
Per prima cosa andò alla finestra. Alzò le persiane.
La scena era tale e quale a quella delle due, delle tre, delle quattro del mattino. Buio, silenzio, deserto. Lampioni, strisce pedonali, auto immobili, nessun autobus. Non capiva. Quel poco di cielo che riusciva a scorgere non pareva iniziare a rischiararsi.
Accese la tele, l’ora era giusta. Le sette e quaranta. Tornò alla finestra. Buio, silenzio, deserto notte. E per l’ora seguente fu ancora così, e così dopo due ore, tre, quattro. Ancora notte.