Wilma è giunta al termine del tempo. Stanno chiamando il suo uomo nei campi.
“Antonioooooooooo”, si sente echeggiare in mezzo al salmastro della nebbia litoranea.
“Antonioooooooooo”, lei grida, che quando serve non c’è mai.
Corrono i bambini per la corte e si disperdono pei campi, come succhiati dalla tramontana, cercando l’uomo.
Ai quattr’angoli del cortile ci sono delle stalle e fumano dal freddo. Si alza uno zoccolo ogni tanto; ogni tanto si sente muggire. Un cavallo, una mucca.
Il maiale che si sta per ammazzare lo senti dai tonfi sordi, come se lo sapesse, contro il recinto.
“Antonioooooooooo”, vanno gridando per i filari che sono stati legati ai fili, sotto ben arieggiata la terra. E questi uomini che per le lor mogli non ci sono mai, valli un po' a trovare…
Qualcuno s’attarda a far lo scemo con le contadinelle. Niente di che, solo le battutine che fanno prurigine e risate. Risate argentine che si levano nella bruma, come polene che appaiano all’improvviso, nella fuliggine invernale di un mare di stoppie.
Chi sta nei campi alza la testa. Sente questi richiami e dice al vicino “Wilma sta sgravando!”, e lo dice come se quella portasse un peso enorme, un blocco di marmo ciclopico nel grembo.
“Sta sgravando…”, e lo dice strabuzzando gli occhi. Altre braccia per la terra. Per questa terra che fagocita braccia, le vuole. Le reclama.
Wilma ha fitte lancinanti; suda. Si tiene con le mani ad artiglio sulle lenzuola fredde mentre la levatrice la guarda fissa in viso.
Altre donne per casa vanno girando: chi porta asciugamani, chi qualcos’altro. Una bambina fa capolino dallo stipite. Wilma trova il tempo per guardarla. Entrambe hanno gli occhi spalancati e bianchi. Dalla finestra la luce è fatta chiara dalla nebbia che sale e scende.
Wilma ha capito che quando un lembo di nebbia sbatte sulle imposte sta per salire il dolore. Quando la nebbia si sposta e si intravede il cachi, qualche ramo, il dolore rapido si acquieta, ma resta là, sordo, in attesa, pronto a lanciarsi come per un attacco di trincea.
“Non lasciarlo partire Antonio! Non adesso!”, dice la levatrice.
“Ho fatto il sogno che non ritornava…”, continua, mentre l’altra la guarda senza motto.
Molti compagni infatti, in fanteria, hanno lasciato perse le lor tracce. Molti dicono che stanno ritornando, ma nessuno ci spera più di tanto. La terra prende le braccia, la Patria si prende tutto.
“Perché dici così… ooooooooooh perché dici così”, chiede Wilma, mentre sente che la tigre si sta aggrappando di nuovo alla sua carne e sta per slabbrare di nuovo.
“Ho fatto solo un sogno… ma i sogni miei… respira! Respira!”
“Che sogno hai fatto! Dimmi che sognooooooooddio!”, e si tiene stretti i lembi delle lenzuola, oramai ridotti a cenci.
“Ho visto un fumo di vapore… come di stazione. E ho visto tante facce. Ma la sua non c’era. Eppure lo sapevo che era la sua chiamata… nel sogno lo sapevo!”
“E io che devo fare! Che devo fare io?”, dice mentre sente il sudore sotto la nuca, lungo la schiena.
“Non lasciarlo partire! Fagli marcare visita, che se no non torna!”, disse la donna, mentre con un gesto risoluto le allargava le gambe.
Glielo disse ora perché sapeva che le sarebbe rimasto impresso, assieme al dolore e ai pochi momenti di pausa che il dolore le concedeva.
Poi vennero le donne a portare quello che la levatrice chiedeva. Come fossero in lutto, preoccupate. Era una sorta di Messa. Invece di esserci aria di vita, c’era aria di morte.
Wilma urlò con quanto fiato aveva, tanto che la nebbia si ritrasse. E fu a quel punto facile trovare Antonio in paese, che faceva sistemare una ruota del carretto.
Quando si fece sulla porta, Wilma aveva in grembo il piccolo, che mandava un filo di profumo di biscotti.
“Antò” gli disse “Non partire!”
E l’uomo fece un passo tremante dalla porta al letto, rimanendo così, come un bambino che vede innanzi a sé le cose più belle che aveva immaginato.