Gli uccelli, queste meravigliose creature che hanno dipinti tra le piume, musica nei becchi e una straordinaria ingegneria di penne sulle ali e sulla coda, hanno da sempre ispirato artisti e scienziati di ogni tempo. Ammiro la bellezza degli uccelli fin da quando ero un bambino. All’età di otto anni mio padre mi regalò un binocolo e ne comprò uno anche per sé, e spesso mi portava nelle campagne venete, dove abitavamo in quel periodo, per fare birdwatching insieme. Forse quella fu la prima scintilla di quella che solo due anni dopo sarebbe diventata una grande passione per l’uccellagione.
Quando avevo dieci anni la mia famiglia decise di tornare in Campania dove mio padre aveva ancora la casa che gli aveva lasciato in eredità il nonno. La casa del nonno era molto grande, con un bel cortile ampio e con un po’ di giardino. In quella stessa casa ci abitava anche mio zio Giustino, con mia zia Anna e mio cugino Luchino. Fu proprio lui a instillarmi nell’anima la passione per l’uccellagione. Luchino era un uccellatore esperto e aveva in casa tante gabbie, con dentro uccelli di varie specie. Aveva una gazza, una ghiandaia, dei verdoni e una bellissima cardellina con una maschera rossa sul viso che pareva imbellettata con del fard. Un giorno Luchino mi chiese di andare con lui a catturare cardellini con la rete a scatto. Aveva uno stratagemma straordinario per catturarli: usava la cardellina come esca, legandola con una zampetta a una bacchetta di legno, manovrata a distanza con una cordicella.
«Lega la cardellina sulla bacchetta», mi disse mentre sistemava la rete a terra, nascondendola tra i cardi.
«Cosa?», dissi perplesso.
«La cardellina nella gabbia è nostra alleata. La legheremo con una zampa sulla bacchetta di legno che manovreremo a distanza con una cordicella. Ogni volta che tireremo la corda, la bacchetta si alzerà e la signorinella ci salterà sopra battendo sensualmente le sue ali, così attirerà gli sciocchi maschi dritti nella nostra trappola. Che te ne pare, Raffaele?»
«Un piano geniale», risposi con un sorriso.
Sistemammo il tutto e ci posizionammo dietro a un albero a circa quattro metri di distanza dalla rete, dove avevamo messo dei rametti con le foglie davanti a noi per restare ben nascosti. Mio cugino aveva tra le mani la corda per far scattare la rete al momento giusto e aveva affidato a me la cordicella per gestire la cardellina di richiamo. A un tratto sentimmo un fischio liquido e melodioso, quello secondo mio cugino era il canto del cardellino maschio.
«Ogni uccello ha il suo canto», disse Luchino, «presto, tirala su, cugino!», aggiunse secco, ma con voce sommessa.
Tirai lievemente la cordicella e subito la cardellina saltò sulla bacchetta, cinguettando e muovendo sensualmente le ali. Il suo cinguettio, delicato e ammaliatore come il canto di una sirena, attirò il maschio verso di lei e dritto nella nostra trappola. Appena lo sfortunato cardellino atterrò sulla femmina, Luchino tirò con forza la corda e la rete scattò su di lui, intrappolandolo sotto. Subito corremmo alla rete e lo tirammo fuori per metterlo in gabbia. Era bellissimo, aveva sul viso una maschera di un colore rosso cremisi, orlata di nero sul becco. Il corpo era di un colore evanescente, tra il grigio e il beige, la coda era nera e sulle ali aveva delle meravigliose sfumature gialle. Rimasi incantato da quella meravigliosa composizione di colori e pensai che chiunque avesse provveduto a vestire quell’uccellino aveva pensato non solo a tenerlo al caldo per l’inverno, ma anche a dare a quel vestito una foggia di bellezza.
«Luchino, posso prenderlo?», chiesi.
«Prendilo pure se vuoi, ma sta’ attento a tenerlo bene che potrebbe volarti via», rispose mettendomi in guardia.
Lo presi con molta attenzione, stringendolo delicatamente nel palmo della mia mano. Sentivo nel palmo della mia mano il suo cuoricino palpitare forte, sembrava quasi volergli uscire dal petto. Mollai leggermente la presa per paura di fargli del male ma lui, approfittando di quel momento di esitazione da parte mia, volò via come un lampo, riconquistando il cielo e la sua libertà. Mio cugino si arrabbiò con me e in principio voleva dire e voleva fare, ma poi quando mi vide mortificato disarmò la sua arrabbiatura e dandomi una bonaria pacca sulla spalla mi disse che ci avremmo riprovato e ne avremmo presi altri. In realtà qualche giorno dopo, un gatto randagio si mangiò la cardellina di richiamo e senza l’esca non si poteva tornare a catturare cardellini. Dopo qualche giorno andammo per le campagne in cerca di nidi e trovammo, nell’inforcatura di un pesco, un nido di merli. Luchino salì sull’albero, prese il nido e lo portò giù. C’erano dentro quattro merlotti con poche penne tra il nero e il marroncino e ancora qualche ciuffo di piume bianche sulla testa. Ci eravamo allontanati di soli pochi metri, quando a un tratto sentimmo un cinguettio: «Ci ci ci cip! Ci ci ci cip!», era mamma merla che volava sulle nostre teste, gridando perché le avevamo rubato i figli. Avrebbe voluto fare qualcosa per salvarli, ma sapeva di non poter far molto e dopo un po’ si rassegnò e con un cinguettio che esprimeva dolore volò via. Quel pianto di mamma merla mi entrò nel cuore come una pugnalata e da quel momento un’illuminazione improvvisa mi aveva suggerito che c’era qualcosa di sbagliato in quello che stavamo facendo. Qualche settimana dopo ci recammo in un cantiere edile abbandonato dove c’era ad aspettarci un amico di mio cugino di nome Rosario, il quale sosteneva di avere un sistema infallibile per catturare i passeri. Aveva costruito un retino fissandolo con del fil di ferro in cima a una lunga canna. All’improvviso vedemmo un passero entrare in un buco sotto al tetto, dal quale penzolava un po’ di paglia, subito Rosario gli sbarrò l’uscita col retino e quando il passero finì di sfamare i figli ci finì direttamente dentro.
«È una femmina», disse Rosario, dopo che l’aveva tirato fuori dal retino. L’aveva capito dal colore grigiastro delle piume.
«Ma i piccoli nel nido moriranno senza la loro madre!», esclamai.
«Certo che moriranno. Cosa vuoi, che saliamo su per salvarli?», disse con un sogghigno di derisione. Tornammo a casa con quella passerotta che scuoteva ansiosamente le ali e saltava da un lato all’altro della gabbia picchiando col becco tra le sbarre e a forza di infilarci in mezzo il becco si stava facendo del male. Era calata la sera e mi sembrava di sentire da lontano il pigolio morente dei passerotti nel nido. Mi avvicinai alla gabbia di mamma passera e vidi che le piume sul bordo del suo becco si erano consumate e la pelle sotto stava cominciando a sanguinare. «Perdonami», le sussurrai, «la tua prigionia finisce qui». Aprii la porta della gabbia e la lasciai volare via. Finalmente poté stendere le sue ali e correre dai suoi figli. Lo stesso feci con i merli, li portai nella campagna dove li avevamo presi e diedi loro quella libertà che non avevano ancora conosciuto.