Non c’era persona più pragmatica e realista del Vecchio.
Quell’uomo aveva, ormai, vissuto gran parte dei suoi suoi anni, sapeva il fatto suo.
Nato e cresciuto da una famiglia di ricchi mercanti sulle sponde del Mediterraneo, aveva, per tutta l’adolescenza, inseguito con foga il sogno di potersi arricchire con le proprie mani. Ogni colore lo entusiasmava e ogni tessuto sembrava renderlo felice, perciò si mise ad imparare come fabbricare tappeti.
Non appena il padre morì, il Vecchio -che non era ancora poi così vecchio- s’accinse a vendere il negozio di gioielli paterno per finanziare il suo nuovo, nascente mestiere. Riuscì a comprarsi una baracca piuttosto grande che usò come magazzino per i suoi tappeti e ben presto, con l’aiuto d’un ricco amico, che poi sarebbe diventato il suo patrigno, si trovò tra le mani le chiavi arrugginite di un ormai datato locale. L’odore di birra che impregnava le pareti non fu facile da cacciar via, ma riuscì con le proprie forze a rimettere a nuovo il posto e ad usarlo come bottega.
Ricamava tappeti d’ogni genere e colore, anche se i persiani erano la sua specialità. Così lunghi e così morbidi, con frange svolazzanti come capelli di una fanciulla, quei gioielli erano il suo biglietto d’ingresso nelle case dei più rinomati investitori della zona. Ogni settimana gli venivano commissionate decine di creazioni che, tra l’altro, riusciva a terminare in un battibaleno. D’una professionalità apprezzata da ricchi e da poveri, il Vecchio s’era guadagnato, durante tutta la sua vita, fama e rispetto da chiunque incrociasse il suo cammino.
La barba bianca, che legava in una treccia subito sotto al mento, sapeva raccontare d’ogni suo vizio, mentre le grandi mani callose ne decantavano le numerosissime virtù.
Aveva, altresì, una mente assai geniale. Allenata a dir poco. Aveva potuto godere di una rispettabile educazione fin dai primi anni d’età, ed era riuscito a rendere fieri i genitori con ogni pagella e ogni riconoscimento. Amava la matematica, che avrebbe poi utilizzato giornalmente per il suo lavoro, la geometria, la letteratura e, più di tutte, la filosofia. L’autore che più riusciva a masticare e del quale narrava con piacere gli ideali era Immanuel Kant. Da grande sostenitore del pensiero illuminista, un uomo così razionale come il Vecchio non poteva che approvare con fervore un radicale di tale portata. Per entrambi, infatti, la Ragione dominava, fiera, su ogni componente del mondo.
E la sua Ragione, peraltro, parlava chiara: è la scienza che fa girare il mondo, ogni altra cosa discende da essa come una cascata dalla propria fonte. Se c’è neve, allora c’è freddo e se c’è fuoco, allora c’è caldo. A chiunque cercasse di mettere in dubbio un’affermazione di così tanta potenza e di così banale ragionevolezza, il Vecchio rispondeva elencando ogni passaggio che avrebbe portato alla confutazione di quella determinata teoria, indipendentemente da quale fosse l’ipotesi in esame. Uomo di grande intelletto, eppure così ristretto di vedute.
Il Vecchio aveva vissuto l’intera età adulta sotto ai riflettori del giudizio kantiano: ne aveva assaporato ogni dettaglio e l’aveva inserito accuratamente in ogni istante delle sue giornate. Il quotidiano, così, aveva assunto l’illusione d’una perfezione ubiqua ed onnipotente, che riuscì in breve tempo a dissetarlo della sua volontà di conoscere ogni frammento d’Universo.
C’era una sola cosa, però, che il Vecchio aveva conservato nella boccetta dei suoi sogni: sperimentare il Sublime.
Ne aveva letto qualche scorcio in alcuni libri, ma in nessun luogo aveva sentito sul suo petto la pesantezza del Tutto. Così, con indosso pochi stracci e sulle spalle una sacca per portare con sé la vita intera, s’era allontanato dalla propria dimora e s’era incamminato verso il deserto.
Durante il pellegrinaggio per raggiungere il Sublime, aveva prestato attenzione ad ogni singolo dettaglio gli si fosse presentato allo sguardo, nella speranza di poter scorgere l’epifania che tanto desiderava. S’era portato dietro il suo tappeto più bello, una borraccia d’acqua la cui ultima goccia rimasta stava saltellando all’interno delle fresche pareti termiche con fare bambinesco, qualche tozzo di pane e una scatolina di fiammiferi. Non erano di qualità ottima, ma producevano una fiammella piuttosto consistente, che l’avrebbe certamente aiutato a far luce ad ogni passo durante le fredde notti d’Oriente.
Era in viaggio ormai da qualche giorno, esausto e con la gola secca. Le labbra boccheggiavano parole di carità verso il sole cocente e la pelle rizzava i peli all’aria durante le sere buie. Quando si sentiva allo stremo delle forze, si sdraiava sulla sabbia chiara e s’avvolgeva all’interno del tappeto per dormire un poco. Quella sera, la sesta di quel viaggio che aveva un nonsoché di onirico, s’addormentò al calar del sole.
Venne risvegliato, dopo poco tempo, dalla dolce mano del vento, che s’era appoggiata leggermente sulla sua guancia come un’amante preoccupata. Il Vecchio aprì con fatica gli occhi arrossati e gli bastò poco per comprendere che la febbre s’era alzata di qualche grado. Si portò una mano alla fronte e sussultò per quanto fredde sembrassero le dita a contatto con le tempie.
Si voltò verso la sacca che aveva abbandonato sulla sabbia a far da cuscino, l’aprì e tirò fuori con maestria la scatolina di fiammiferi. Ne prese l’ultimo rimasto e l’accese facendolo strisciare contro uno dei lati del contenitore. La fiamma divampò in un lampo, rischiarando l’infinita distesa silenziosa attorno a lui. S’avvicinò il fiammifero alla fronte per scaldarsi, ma con grande incredulità s’accorse che il fuoco stava disperdendo aria gelata.
È impossibile, si disse, una fiamma non può raffreddare, ma non v’era alcuna spiegazione logica, nessun appiglio di Ragione kantiana a cui affidarsi. Comprese nell’immediato di essere davanti al Sublime ch’aveva sognato per tutti quegli anni. Sorrise, quindi soffiò sul fiammifero e chiuse gli occhi.
Ora conosceva l’Universo.