La finestra era rimasta aperta. Il vento stava continuando, incattivito, a lanciare folate prepotenti contro le due ante, che sbattevano ripetutamente provocando tonfi da far girare il capo. Il vetro pareva volesse rompersi, però stava resistendo. Una qualche forza antagonista, proveniente da chissà quale suo desiderio recondito, stava opponendo resistenza al tanto bramato suicidio.
Quello stesso impulso vitale, reincarnazione dubbia di un Kant esasperato, stava cercando di tenere insieme quanti più pezzi di sé potesse, Eros naturale che tentava di proteggere la propria incolumità dal male del mondo. All’opposto, un Seneca dalle sembianze di tramontana urlava a squarciagola e con reiterazione il proprio diritto a morire senza vergogna né giudizio alcuno. Nessuna delle due fazioni, per antonomasia contrastanti, pareva darsi per vinta.
Dall’interno del davanzale, all’opposto, la mosca se ne stava zitta. Non aveva forze neanche per obiettare o per inveire contro i due litiganti e intimare loro di far silenzio. Aveva l’aria stanca, estremamente fiacca. Il piccolo corpicino quasi non tremava più, le ali parevano battere contro il marmo sporco di polvere e briciole di biscotti più lente di quanto non avessero mai fatto. Se ne stava con le zampette tese nell’aere, con occhi impietositi. Aveva la pancia all’insù, e non riusciva a cambiar posizione. Aveva tentato perlomeno di voltarsi, più volte, ma ogni suo sforzo era stato vano. Ogni tanto boccheggiava in cerca d’aria, poi richiudeva il muso nascondendolo nel buio. I peli tutt’intorno al pancione scoperto si rizzavano ogni qualvolta l’aria fredda le carezzasse qualche zampa, ma nei suoi occhi non v’era più nessun segno di sollievo, ormai.
Seneca continuava a dar testimonianza di quanto la vera libertà consistesse nel decidere per la propria morte, urlava forte e sbatteva con prepotenza qualsiasi superficie avesse davanti, per attirare l’attenzione su di sé. All’opposto, l’altro filosofo se ne stava a braccia conserte, cingendo stretta sul petto la finestra di quella casetta al fondo della via. Ascoltava il vento con aria di rimprovero: la vita è un fine da inseguire e da proteggere ad ogni costo, non un mezzo da distruggere alla prima difficoltà, pensava contrapposto.
Per la mosca, però, quella non era affatto la prima difficoltà. Non aveva vissuto molto, questo è vero, ma aveva sperimentato cosa volesse dire la sofferenza. I suoi occhi non potevano nasconderlo, né le sue ali potevano tentare di controbattere, stanche com’erano.
Quella sinistra era macchiata di polvere, pesante più che mai. Alla destra, invece, mancava il supporto necessario per poter volare. In quelle condizioni, a chi mai poteva risultare utile un animale così.
Invidiava il vento tanto quanto invidiava quella finestra. Entrambi, in fondo, avevano una scelta.
Lei, di scelte non ne possedeva più. Anche se avesse voluto alzarsi e lottare per la propria sopravvivenza, non avrebbe potuto. Anche se avesse voluto prelevare da qualsiasi altra entità tutto il coraggio che il suo corpo poteva succhiare per poter porre finalmente fine alla sua vita, se quello era il suo scopo, non ne avrebbe trovato la forza. Il problema, rifletté rammaricata, non sta nell’ideale, ma nella sua reale applicazione. Al suo pensiero, forse, Nietzsche aveva contribuito non poco.
Si domandò cosa potesse fare, a quel punto, ma la soluzione pareva indubbia: avrebbe aspettato la fine del mondo. La fine del suo mondo, s’intende.
Sarebbe rimasta lì, ferma, in silenzio, ad ascoltare le ultime battute del vento e della forza intima di quella finestra e avrebbe sussultato ad ogni loro aspro combattimento, nella speranza che qualche vetro non si rompesse proprio sul suo corpo. Socchiuse gli occhi, rise. Se il destino le avesse riserbato una fine così aspra, non sarebbe stato suo compito comunque quello di rispettare tale decisione?. Sospirò lievemente, col pancino che s’alzò d’un poco, aspettando una scheggia.
Non le arrivò addosso nessun frammento appuntito, né alcuna forte folata di vento che la infrangesse contro qualche superficie o nessuno spiffero che la gettasse a terra come spazzatura insignificante. A dir la verità, non le capitò proprio nulla.
L’ala sinistra le vibrò per un’ultima volta, incontrollata. La fece sobbalzare dallo spavento, le aumentò di poco il battito. Poi, come se niente fosse, le venne un gran sonno.
Allora chiuse gli occhi stanchi e si lasciò andare, dolcemente.