Tutte le mattine lo trovavo lì, davanti alla mia auto, in attesa che io uscissi per andare a lavoro. Conosceva i miei orari, alle 7,30 era sul posto, aspettava che io attraversassi la strada, prendessi le chiavi e avviassi il motore. Certo, la sua era un’attesa interessata, il posto che avrei lasciato libero l’avrebbe occupato subito con uno dei tanti disperati in cerca di parcheggio nella zona adiacente ad uno degli ospedali più grandi di Roma. Era alto e stempiato, pelle scura ma non troppo, viso quasi nascosto dalla visiera del cappello, indossava sempre un giubbino di colore indefinibile, chiuso fino al collo, anche d’estate quando il sole attanagliava la strada e tingeva tutto di un bianco opaco e polveroso. I primi tempi ero seccata, pensavo: “Io abito qui e non è possibile dare soldi tutti i giorni al parcheggiatore, mi conviene prendere in affitto un posto macchina in garage…”
E così per i primi mesi non gli davo mai nulla, gli mormoravo, alquanto indispettita perché mi sembrava una giustificazione non doverosa, che io abitavo di fronte, quindi non mi doveva considerare un parcheggiatore saltuario. Qualche volta gli allungavo qualche moneta, proprio perché mi sentivo a disagio e quasi ingrata per il fatto che lui in ogni caso controllava e custodiva la mia auto fino al mattino seguente, quando, alle 7,30, lo trovavo lì pronto a fermare la corrente del traffico per farmi fare retromarcia ed uscire. Lui non mi rispondeva mai, mi guardava e con il gesto di incrociare le braccia e di scuotere il capo mi faceva capire che non voleva nulla, che aveva capito, che non mi avrebbe chiesto niente, aveva compreso il mio atteggiamento insofferente.
Con il passare del tempo la sua presenza ogni mattina mi divenne usuale, appena uscivo dal cancello sbirciavo per verificare se lui fosse al suo posto, in un certo senso mi dava tranquillità, certezza che avrei ritrovato la mia auto sana e salva, mi stupiva che lui riuscisse sempre a trovare la mia auto che parcheggiavo sempre in posti diversi. Alla fine mi bastava cercare lui per ricordarmi dove avevo parcheggiato e quindi mi sembrò giusto ricompensarlo con qualche moneta che lui , d’acchito, rifiutava ; appena la mia mano si tendeva verso di lui si voltava e se ne andava, notai anche che zoppicava, non me ne ero mai accorta.
Ci rimanevo male, pensavo: “E’ colpa mia, l’ho spaventato dicendo che non l’avrei mai pagato perché abito qui….”, ogni giorno ci riprovavo, ma lui niente, mi faceva parcheggiare perché trovava sempre un posto al mio rientro dal lavoro, ma non voleva mai i soldi. Pensai anche di cambiare parcheggio, per non metterlo in difficoltà e lasciargli il mio posto libero per altri avventori occasionali, sicuramente più redditizi di me, per un giorno lo feci, ma mi sentivo come se lo avessi tradito, il giorno dopo parcheggiai al solito posto e lui, il mattino seguente era già davanti alla mia auto e mi accolse con un sorriso. Allora decisi di parlargli chiaro. “Non ti devi sentire in obbligo, è vero che io abito qui, ma comunque occupo un posto, lascia che ogni tanto ti possa regalare qualcosa” – gli dissi.
Lui mi guardò fisso in viso articolando confusamente delle parole che non compresi, ma capii al volo che era sordomuto, che tentava faticosamente di dirmi qualcosa, dalla sua bocca uscivano suoni incomprensibili, dai toni ora alti e ora bassi. In quel momento avrei voluto sprofondare, non sapevo cosa fare, mi ammutolii anche io e mi infilai in auto. Il mattino dopo, in modo deciso, dopo aver aperto la portiera dell’auto, essermi seduta al volante, acceso il motore e pronta a partire, mentre lui si sbracciava per farmi uscire dal parcheggio, gli infilai una banconota nella tasca del giubbino per sdebitarmi di tutta la mia insensibilità.
Lui non ebbe il tempo di replicare perché io partii immediatamente, vidi dallo specchietto che mi seguiva con lo sguardo camminando lentamente con il suo passo dondolante. Per qualche settimana non lo vidi più, non c’era più nessuno al parcheggio, poi una mattina davanti alla mia auto trovai un altro, un ragazzo giovane ed esile che probabilmente era già stato edotto sul fatto che io abitassi lì di fronte, perché non mi chiedeva ma nulla. Circa un mese dopo trovai sul parabrezza, sotto al tergicristallo, un mazzetto di fiorellini, un mazzetto scomposto ed improvvisato, sotto c’era un fogliettino di carta, c’era scritto “grazie” con una grafia stentata e quasi illeggibile, peraltro pioveva, ed il foglietto era quasi stracciato. Pensai di chiedere al ragazzo se sapesse chi aveva messo quei fiorellini sulla mia auto, ma poi capii che era inutile, io sapevo che li aveva messi lui, il mio amico sordomuto e claudicante.
Ogni mattina speravo di rivederlo per ringraziarlo, per chiedergli come mai si era assentato per tanto tempo, ma non lo vidi più. Allora chiesi al ragazzo se sapesse qualcosa di quel parcheggiatore che c’era prima di lui, come stava? perché non veniva più? Il ragazzo mi guardò con degli occhi vacui e mi rispose: “E’ morto venti giorni fa, era malato”. Rimasi senza parole, gli chiesi ancora “Come si chiamava? Di che paese era?” Il ragazzo mi guardò con quegli occhi spenti, alzò le spalle indifferente e si allontanò. In fondo che importanza aveva sapere chi era e come si chiamava, era solo la spinta del rimpianto di non averlo mai conosciuto bene.
Rimasi turbata per qualche giorno, avrei voluto portare un mazzetto di fiorellini sulla sua tomba e anche un fogliettino che un giorno si sarebbe bagnato di pioggia con su scritto “grazie”.