La guerra era già finita da qualche mese ormai, ma noi eravamo ancora “ospiti” dell’esercito americano.
Il “Major” di origini italiane, ci concesse finalmente la possibilità ed i mezzi per tornare a cercare le nostre famiglie.
Quando ci aveva comunicato la sua decisione, un misto di emozioni contrastanti mi avevano letteralmente travolto: una parte di me era elettrizzata all’idea di poter tornare finalmente a Milano e dalla mia famiglia, ma erano mesi che non avevo più notizie dei miei cari e sapevo che la mia città era stata pesantemente bombardata… così l’altra parte di me era terrorizzata… non sapevo cosa e chi avrei trovato: avrei anche potuto non trovare nulla per cui valesse la pena ritornare.
Con questo stato d’animo da montagne russe, guardavo l’enorme soldato di colore che era stato incaricato di accompagnarci preparare la jeep che avrebbe condotto me e altri tre miei compagni verso casa.
Raccogliemmo tutte le nostre cose in una cassa-valigia insieme ad alcuni generi di conforto che ci avevano fornito gli americani: sigarette, tabacco sfuso di buona qualità, gallette, cibo in scatola liofilizzato, latte condensato e un certo numero di Razioni K, tutte cose che i miei avrebbero guardato con sorpresa, così come avevo già fatto io… sempre se avessi trovato qualcuno a cui mostrare tutto quel ben di Dio.
Il viaggio in jeep da Terlizzi, nel sud Italia, si svolse tutto sommato senza troppi intoppi, anche se il paesaggio era quello di un’Italia post-bellica, con ponti crollati, strade dissestate, paesi bombardati, ma con tanta gente al lavoro per ricostruire ciò che era stato distrutto, cercando a fatica di tornare piano piano alla normalità.
Arrivati alle porte di Milano, il militare americano scaricò me e gli altri miei commilitoni milanesi: avremmo avuto tre giorni di tempo per rintracciare le nostre famiglie, poi saremmo dovuti tornare dove eravamo stati lasciati per rientrare nuovamente al campo americano. Non era ancora arrivato per noi il momento del congedo definitivo. Per chi di noi non avesse trovato nulla per cui valesse la pena restare, ci sarebbe poi stata la possibilità di ricominciare una nuova vita negli Stati Uniti.
Guardavo la mia Milano… i tram circolavano semivuoti ma, anche se per arrivare a casa mia, alla Baia del Re, avrei dovuto percorre parecchi chilometri, non osai salire su nessuna vettura… mi vergognavo della scritta PW (Prisoner of War) che campeggiava in bella vista sulla mia schiena.
Mi incamminai così a piedi, attraversando vari quartieri; alcuni erano tutto sommato ben messi, altri erano quasi irriconoscibili: interi isolati devastati e pieni di detriti che ne avevano sconvolto l’originaria fisionomia.
Arrivai alle soglie del mio quartiere, guardavo la via che portava verso casa che era letteralmente un disastro, piena di macerie informi… non osavo svoltare l’angolo… sapevo che lì c’era casa mia… o almeno speravo ci fosse ancora… non osavo guardare…
Proseguii con titubanza e… sì, la mia casa era ancora lì dove e più o meno come l’avevo lasciata ormai più di cinque anni prima, il cuore mi batteva a mille nel petto, le gambe tremavano… c’ero quasi, ma avrei ritrovato i miei genitori e i miei fratelli? Tutto era così a portata di mano… felicità immensa o disperazione.
Arrivai sulla soglia della palazzo di ringhiera dove avevo passato la mia fanciullezza, percorsi le scale tre gradini alla volta con il cuore in gola, incrociai un ragazzone che non avevo mai visto… in mia assenza saranno cambiati alcuni inquilini pensai… ma poco importava in quel momento... Giunsi finalmente al terzo piano, dove c’era il mio appartamento.
A breve avrei avuto tutte le risposte… dalla ringhiera, attraverso la finestra aperta, riuscivo a gettare lo sguardo dentro… di spalle vedevo una figura femminile in penombra, sì è lei è mia madre! Una gioia immensa mi travolse… “L’è l’Arnaldo, l’è Arnaldo”, la vicina doveva avermi visto arrivare… “No, l’Arnaldo l’è morto! Di sicuro non è sopravvissuto al bombardamento della base aeronautica di Grottaglie!” “Ma no, ti dico l’è l’Arnaldo è lì, lo vedo sul ballatoio!” Mia madre si voltò di scatto, vidi l’espressione del suo volto mutare da inconsolabile a gioia immensa “Sei tornato!” Mi abbracciò e scoppiò a piangere, piansi anche io…
…finalmente ero ritornato a casa, pronto per una nuova vita fortunatamente con tutti gli affetti che avevo lasciato… sarebbe stata dura, ma tutti insieme ce l’avremmo fatta… avremmo camminato fianco a fianco uniti per ricostruire il nostro paese e il nostro futuro.
P.S: Il ragazzo incontrato sulle scale era mia fratello, non lo avevo riconosciuto… ero partito che era un bambino, nel frattempo era diventato un uomo.
Dovetti come era negli accordi, tornare al campo americano ancora per qualche tempo per poi finalmente tornare definitivamente e ricominciare a vivere una vita normale.