Di lei mi ricordo le mani. Mani tozze e forti, mani che avevano strofinato pavimenti, lavato panni ai lavatoi dietro casa, mani che gesticolavano accompagnando le parole scurrili di cui spesso faceva uso. Io ero una bambina buona, diciamo quasi una bambola di pezza, eppure, nonostante mi volesse molto bene, trovava sempre il modo per sgridarmi.
Il primo flash back che ho di lei è vederla tornare con la conca piena di panni lavati posata sulla testa, mani dietro la schiena, saliva i 75 gradini di ardesia per arrivare al quinto e ultimo piano, dove abitavamo tutti insieme. Quella conca, pesante come un macigno, restava in equilibrio fra il centro della testa e la crocchia di capelli, neri corvini, che teneva fermi con le mollette in osso. A volte mi portava con sé: sgabello sotto ai piedi, mi dava i fazzoletti da lavare e io, imitando tutte le altre donne, strofinavo e sciacquavo, strofinavo e sciacquavo. Se il tempo era bello, si attraversava il fiume e si stendevano le lenzuola sulla sabbia, aspettando un paio d’ore affinché asciugassero. Sentivo le frasi scurrili dette in dialetto ma, la prima volta che mi sfuggì: belin’ (tipico gergo genovese che significa cazzo) mi fece venire i vermi e mi diede un manrovescio sulla bocca. Non lo dissi mai più. Era una specie di generale in gonnella, tutti la conoscevano e la rispettavano anche se aveva smesso la scuola a 7 anni per andare a servizio. Orfana di padre, morto nel 1914 di spagnola, terza di quattro figli tutti maschi, aveva una madre che guidava i camion e fumava il sigaro. Sua madre si sposò quattro volte e per quattro volte restò vedova; l’ultimo marito aveva 20 anni meno di lei ma, essendo bellissima, nessuno ci faceva caso. Lei, dopo aver lavorato tutto il giorno, faceva il giro delle osterie e recuperava quella madre che tutto faceva, meno che la madre. Si occupava dei fratelli, li faceva rigare dritti come soldatini anche se, a volte, ne perdeva il controllo. Era una donna povera ma generosa, pronta ad aiutare tutti coloro che erano in difficoltà. Si sposò giovanissima e il suo viaggio di nozze fu un giro in carrozza, ne parlava con orgoglio perché diceva che si era sentita una regina. A 20 anni era già madre, nella miseria più nera del nero. L’orgoglio di essere onesta e lavoratrice non la abbandonò mai. Rimase vedova giovane, come la maggior parte delle sue amiche, si rimboccò ancora le maniche e tirò su i due figli. Era bellissima, come lo era stata sua madre, una bellezza moresca, un cipiglio che incuteva timore negli uomini, si faceva rispettare, sempre. Eppure la sua risata, nonostante la vita l’avesse maltrattata, era contagiosa. Un sorriso meraviglioso, scoprii solo da adulta che i denti erano tutti finti: li aveva persi dopo il primo parto per una piorrea non curata.
Le mani, la bellezza, il sorriso, la grinta, il cipiglio, la forza di una donna di altri tempi. Eri tu: mia nonna.