Una voce, nient’altro che una voce. Quella voce. Identica. Di una vita fa. Quel timbro caldo, quella tonalità bassa, quelle note profonde.
Non era possibile. Dovevo aver acceso la TV distrattamente quel venerdì sera con un gesto inconsulto. Mentre il sangue si prosciugava nelle vene, con un ultimo sforzo prima di estinguermi tra gli umani per un colpo al cuore, alzai gli occhi dal libro che avevo tra le mani e mi girai di scatto verso lo schermo. Nulla, solo un documentario o qualcosa di simile con un omino alto e grasso che blaterava di eventuali e varie.
Restai lì, atterrita, in attesa. Sempre e solo il tipo e le sue argomentazioni, ma nessuna traccia della voce fuori campo. Persa. Per sempre. Meglio così. Forse solo una suggestione dettata da visioni di un passato nemmeno troppo remoto. Aspettai il lento ripristino del fluire delle attività vitali e tornai alla lettura. Intanto mia figlia urlava qualcosa nella sua lingua di eterna infante che ancora non comprendevo e che forse mai sarei riuscita a fare, il cellulare aveva ripreso a squillare con il solito numero privato che da giorni insisteva a chiamare e al quale mi guardavo bene dal rispondere, un caffè che non prendo quasi mai dopo cena, ormai bruciato, chiedeva di essere liberato da una moka vecchia e arrugginita, e poi, non bastasse, un rumore assordante, che certo non poteva definirsi musica, proveniente dall’appartamento attiguo, perforava il tramezzo di cartapesta che divideva la mia camera da letto da quella di un adolescente brufoloso che non sarebbe cresciuto di certo a breve; ma io continuavo a leggere incurante del mondo intorno.
Alla fine riuscii a lavare via quella giornata di fango e sterco e a placare ogni suono: mia figlia si addormentò nel suo lettino, il cellulare smise di snervarmi, il caffè si arrese alla caffettiera e il vicino optò per le cuffie. Dimenticai in fretta la voce e mi preparai per la notte, certa che la mattina seguente avrebbe trovato in me una donna migliore: un pensiero idiota che coltivavo ogni sera.
Mi ritrovai al venerdì successivo senza neanche accorgermene, assorbita da una realtà che non avevo previsto, ma ormai le mie settimane volavano via così. Certo non era nei miei programmi diventare madre senza un compagno, arrancare con qualche lavoretto per arrivare a fine mese, elemosinare una pizza da un’amica sempre irreperibile. La mia vita si era fermata, andata in letargo, e nessuno se n’era accorto. Non ero single. Ero sola. Una donna incolore. Accatastavo briciole di vita solo per avere dei ricordi che con tutta probabilità avrei un giorno cestinato. Il mio destino, ancora da scrivere, viveva a meno trenta gradi sotto zero dove anche i desideri gelavano dentro uno scrigno fatto di nulla. Avevo atteso per lungo tempo la risurrezione dei sogni ma si trattava di fesserie per miscredenti di basso livello. Ma chi se ne frega: del resto il tempo corrode tutto, anche le cose belle.
Quella sera mia figlia era dai nonni e ci sarebbe rimasta per tutto il fine settimana, un’occasione quasi unica visto che i miei genitori si prestavano poco a queste incombenze, nemmeno fossero di stampo anglosassone, del resto contribuivano al mio sostentamento quando i soldi non bastavano, e non bastavano quasi mai. Non avevo molta fame ma mi preparai lo stesso una cenetta semplice e gustosa.
Mentre ingurgitavo in cucina una birretta ghiacciata, ancora in attesa di cenare, di nuovo la voce. Avevo rimosso ogni impronta mentale della settimana precedente. Schizzai di là in salotto con il bicchiere ancora in mano: televisore acceso evidentemente da me, stesso omino e stessa ambientazione, ne dedussi stesso canale e programma, aspettai trepidante che finisse ma di nuovo nessuna traccia della voce. Spensi immediatamente. Tornai in cucina e mi gustai la cena bevendo forse un po’ troppo e poi, con calma e gesso, decisi di uscire. Percorsi a piedi qualche centinaio di metri e raggiunsi il posto tra sentieri addormentati.
- Ti ho sentito poco fa in TV, anche la settimana scorsa a dirla tutta.
- Cosa? In TV?
- Era la tua voce, ne sono sicura.
- Tu sei pazza.
- E’ passata una vita e ti rifai vivo così, te lo richiedo: eri tu, vero?
- No cara, sono passati parecchi ma parecchi mesi, vedo che hai archiviato e rimosso facilmente. Io sono inchiodato qui e no, non ero io, in TV poi!
- Non ti credo.
- Cosa sei venuta a fare veramente? Problemi di coscienza?
- Ho sentito distintamente la tua voce. Mi perseguiti.
- Si chiamano allucinazioni.
- Devi andartene, devi lasciarmi in pace.
- Ti ricordo che non posso andarmene da dove mi hai costretto tu. Dilaniato da rapaci, sono rientrato nel ciclo biologico e, preda di altri animali, mi continuo a diffondere in altri corpi. Puoi immaginarmi dove e come vuoi: nel volo degli uccelli, nello strisciare di rettili, nel ruminare di qualche mammifero, oppure che ne so, negli echi in montagna, nelle scie di lava, nello scrosciare della pioggia. Ovunque ma non in televisione!
- Non sono stata io, quella sera a...
- Ma certamente, è stato il vento. Hai una visione laterale dei fatti.
- Era una notte ventosa. Ho una visione laterale ma centrata.
- Sì certo, una notte ventosa e magari pure buia e tempestosa. Ti sei fatta un film da sola.
- Senti...
- No, senti tu. Ripeto: sei malata, fatti curare, dammi retta e ora vattene.
Rincasai poco dopo, la luna era già alta nel cielo e nemmeno lei poté fare più nulla per me. Mi infilai a letto in compagnia di qualche goccia di antidepressivo per evitare un sonno vigile e potenziali visioni perché, al contrario di quanto sosteneva lui, io non ero pazza.
Un’altra settimana d’inferno: mia figlia non ne voleva sapere di stare all’asilo, l’inserimento si rivelava di giorno in giorno un fallimento, i miei si erano rifiutati di tenerla perché i figli quando si fanno bisogna guardarseli e bla bla bla, con l’unica differenza che non erano queste le scosse emotive che avevo sognato: io non avevo votato per una vita da mammina solitaria e isterica. In ogni caso, questa volta arrivai al venerdì seguente ben consapevole dell’orario e, per tempo, accesi la tele sul canale prestabilito, piantata lì davanti, incollata sul divano. Mi sorbii più di due ore di trasmissione, mi feci una cultura cosmica su come nidificano le allodole, su quanti neuroni possiede un polpo e sul perché gli ippopotami dormono sott’acqua. Forse perché assorbita da tanta erudizione e presa dalle abitudini, tradizioni, usi e costumi di certi animali, a un certo punto sentii le palpebre calare un tantino. E puntuale la voce fece il suo ingresso insieme alle grida insopportabili di mia figlia. Aprii gli occhi e naturalmente non riuscii di nuovo a dare un volto a quella dannata voce. Spensi la TV prima di lanciarle contro il telecomando e corsi di là in cameretta a tentare almeno di attenuare gli strilli dell’incontenibile creatura, senza risultato…