“Qual è il suo nome?” chiese Zoe al tizio che le era seduto di fianco. “Si chiama Bastian, ma per noi è Totòne.” Totòne, per un attimo, guardò con i suoi occhi azzurri la platea, poi ritornò sul libro, lo aprì e cominciò a leggere. “All’uomo è dato partecipare di quella pace dello spirito, che è alla base della felicità umana soltanto quando è stato costretto a rinunciare a ogni sua aspettazione e riportato alla nuda, spoglia realtà dell’esistere. Quella pace è indispensabile per farci ritenere accettabile il presente, e con esso l’intera esistenza. A tal fine dobbiamo sempre rammentarci che l’oggi viene una volta sola, e non ritorna più. Non c’illudiamo che domani ritorni: ma domani è un altro giorno, e viene anch’esso una volta sola…" La lettura, andò avanti per due ore circa, nel silenzio più totale, risultato di un’attenzione avida di conoscenza, e di riscossa spirituale e morale. Quando tutti se ne furono andati, per rientrare nei campi fortificati, Angelo presentò i due nuovi ospiti a Basthian, che subito domandò loro i motivi di quel viaggio. Zoe fece uno stringato riassunto della strana faccenda dei capelli, mentre Arturo, in un totale imbarazzo, si passava nervosamente la mano destra sulla testa pelata. Basthian lo guardò e sorrise. “Trovami la carta della transumanza” chiese Basthian a testa di pera e, in pochi secondi, la carta era nelle sue mani. La sfilò dalla custodia di plastica trasparente e la svolse. “Ecco,” disse, “ noi siamo qui, nella zona 51H/17 la zona grigia. Questo è il nostro campo, il 91 bis, e questa è la città di Krita, a sei giorni di cammino - evitatela e seguite, invece, il torrente Laido, fino ai prati dell’Indolenthia - questa macchia di colore verde. Oltre, c’è la terra dei Dolom, con le sue montagne vertiginose, e quel vento maledetto che non smette mai di soffiare. L’uomo che cercate, vive a Optina, ai piedi della vetta Specchiata.” Eccola qui” disse, battendo con forza la punta dell’indice destro, sopra una piccola macchia di colore rosso acceso. Si era fatto tardi e Basthian, stanco, se ne andò a dormire. I tre risalirono all’esterno, in direzione del campo di Angelo. Arturo e Zoe, si addormentarono esausti sul comodo divano letto, all’ingresso di un buio scantinato in mattoni che testa di pera aveva adibito a sua dimora. Prima del sorgere del sole erano di nuovo in piedi, pronti ad affrontare il lungo cammino e cominciarono a camminare in direzione di Krita. Poco dopo, Angelo si alzò, e vide uno strano foglio che penzolava dal basso soffitto. Si avvicinò, e staccò il messaggio dalla catenina di perline azzurre, che lo sosteneva e lesse; “Grazie Angelo, non ti dimenticherò mai - Zoe” Angelo mise il foglio in tasca e con gli occhi lucidi, se ne uscì fuori. Al quarto giorno di cammino spedito, Arturo e Zoe si accamparono ai piedi del Colle dei tamburi, a quaranta miglia da Krita. Era notte fonda e in quel silenzio raggelante, Arturo accese un piccolo fuoco che nel suo crepitare detergeva dall'inquietudine i loro cuori. " Voglio vedere quella città " disse Arturo con tono autoritario. mentre con difficoltà cercava di deglutire un boccone di pane secco, " e non voglio discutere ". Zoe non ribattè i si rannicchiò all'interno di un voluminoso sacco di plastica trasparente mentre, l'ultimo spicchio di luna, veniva fagocitato da una minacciosa nuvola nera. Dentro la città di Krita Ecco il mercante di illusioni: è li, al centro della piazza. È il più ricco e più potente signore della città Relativa. Veste di porpora e di seta, e la sua carrozza, è trainata da sei cavalli bianchi; o neri? La sua dimora è la fortezza di Krita che come un’aquila, incombe tutto intorno, dall’alto della collina Maggiore, come un monito celeste.
E non sono che specchi, la sua mercanzia, si, solo infiniti specchi: grandi e piccoli, neri o colorati, luminosi e parlanti, seducenti o imploranti, specchi vivi, minacciosi e piangenti, sensuali e assassini si, infiniti specchi luccicanti, stregati e maledetti, scaltri e furbi, servi e padroni, abbaglianti, ipnotici, lussuriosi, fonte della sua ricchezza e del suo sconfinato potere. Quale uomo di questa città, rinuncerebbe mai ad uno di questi specchi? Potenti e miserabili, cristiani e pagani, storpi, zoppi, ciechi, schiavi, servi, baldracche, prelati e monsignori, poeti e filosofi, politici e cialtroni, ladri, assassini e cornuti, sono le anime perse di una fila sconfinata che, dai verdi prati dell’Indolenthia, scavalcando le alte vette innevate della terra dei Dolom, termina ai piedi delle marmoree porte della fortezza di Krita. Giorno dopo giorno, la fila, si alimenta di nuove anime, giunte dalle vicine valli e da paesi lontani; si gonfia e si allunga, silente e paziente e, ne il turbinare del vento o la pioggia scrosciante, scalfisce la potenza di un tale sortilegio. I campi abbandonati inaridiscono e bruciano e nelle botteghe solitarie, ratti, serpi, volpi e scarafaggi, ne fanno dimora. La miseria morale, come l’alta marea, ricopre ogni cosa e, le campane della chiesa Benedetta, tacciono l’ora. I giorni si confondono con le notti, e la ragione, si perde dentro l’incubo di un folle desiderio, che affonda la sua lama, nel cuore di un presente immobile e dolente.
Le anime perse, stremate e sudice, si accasciano morenti nel fetido fango. Fame arsura, dolore e fatica, si involano dai corpi straziati, lasciandone spoglie. Ecco Goror, il mercante! E’ li, dentro la sua carrozza, adorna di specchi dorati, che si avvia verso la fortezza. Poi, salirà sul punto più alto della Torre Massima, e da lassù, premendo la pietra del Se Relativo, aprirà le porte di Krita, alle anime perse.
Dentro la fortezza di Goror Al tramonto di quel giorno, giunsero ai piedi della città. Esausti per il lungo viaggio, si rintanarono al freddo di un tugurio maleodorante. La bella Zoe accese un piccolo fuoco e subito dopo, sprofondarono in un sonno inquieto. La mattina seguente, sulla grande piazza della città relativa, fra la moltitudine, il vociare e inquietanti lamenti, i due si trovarono faccia a faccia con il venerabile Goror.
“Arup azneicsoc anu id etnaticce uip è allun anatas id ihcco ilga” sussurrò Goror all’orecchio di Zoe. “Cerate me.. cercate me.. cercate me.. ma non indugiate a perdervi nel dubbio” - disse ancora – “Io sono la che attendo, ma non imploro – aspetto e mi commuovo - mi perdo e mi ritrovo.. scommetto..scommetto” - e si allontanò in direzione del castello, mentre al suo passaggio, la folla adorante si prostrava a terra mescolandosi ai propri escrementi e al vomito.
Arturo e Zoe dopo una coda di alcune ore, raggiunsero l’ingresso del castello al quale accesero attraverso una piccola porta di legno completamente ricoperta da lunghe ciocche di capelli annodati a treccia, di colore blu cobalto. Si trovarono di fronte a una imponente scala, di marmo nero, venata di cinabro, ai lati della quale, luride baldracche in preda, alla lussuria, come cagne in calore si agitavano ammiccando ad una fila incessante di miserabili che, con fatica, cercavano di scalarne le alte rampe.
Alla sua sommità, si apriva un grande atrio dal quale si articolavano sei corridoi completamente lastricati di specchi spezzati di varie tinte, forme e colori e un ultimo stretto budello laterale, dal pavimento ricoperto di piccole sfere di vetro che pulsavano come lucciole, nel buio di quell’atmosfera psichedelica.
I due, vennero immediatamente e misteriosamente attratti da quel sinistro cunicolo all’ingresso del quale si poteva ammirare il famoso palindromo “SATOR AREPO TENET OPERA ROTAS” incastonato all’interno di una cornice quadrata di foglie di ametista. Poi, a testa bassa, si incamminarono al suo interno.
Al contatto, le sfere risultavano morbide, gommose, e sotto la pressione dei loro piedi, producevano piccoli e brevi lampi di una luce azzurrognola accompagnati da impercettibili lamenti di dolore. Zoe comprese all’istante che ciò che calpestavano, in realtà non erano altro che migliaia e migliaia di occhi – un fiume ininterrotto di occhi imploranti, che fissavano il vuoto. Continua...