Non sono un credente e non lo sono mai stato, ma se esistesse il paradiso dovrebbe somigliare certamente ai campi dietro la casa dove sono cresciuto. Si sviluppavano lungo la strada che tagliava a metà il paese ed erano divisi da essa da una lunga striscia di case, come un muro, che teneva nascosto questo giardino segreto. Correvo giù per la strada asfaltata, perpendicolare a quella principale, strada che d’un tratto, dove arrivava l’ultima casa, diventava sterrata.
Ho ancora l’immagine di quei campi, vivida, in ogni stagione. Il rosso fulgido autunnale delle foglie e la terra con mille aculei che vi spuntavano, resti dei raccolti tagliati. Le pozzanghere congelate e le chiazze di neve sporca qua e là, come ad essersi svegliati in una desolata landa siberiana. Le gemme e i piccoli steli d’erba che clorofillosi esplodevano in primavera. Ma la stagione che tramutava quei campi in paradiso era l’estate. Se vi entravate verso sera, quando l’enorme sole rosso stava scendendo dietro le montagne all’orizzonte, lì si compiva la magia… gli appezzamenti alternati di mais e maggese, le querce qua e là, i fossi piani di rane con le parete ricoperte di fiorellini gialli e lilla e sottili giunchi. Quelle stradine che correvano su e giù, intrecciandosi come ragnatele, tra altissime piantagioni di mais che ti proteggevano e ti facevano sentire come dentro un labirinto. Poi più lontano si vedevano morbide colline, ricoperti da boschetti. Molti animali comparivano al tramonto, da vari tipi di uccelli, a grosse nutrie che mettevano fuori la testa dalle loro tane, ai grilli e poi... e poi arrivati più avanti, entrati in una radura di un boschetto, quando spariva completamente la luce solare apparivano queste decine, centinaia di fioche luci giallo/verdi. Lucciole che sembravano vorticarti intorno e dirti: ti abbiamo tanto atteso e finalmente sei arrivato ora riposati noi veglieremo su di te per l’eternità.
In quell’eden ho passato la mia infanzia, era il mio rifugio e dove ho fatto le mie prime esperienze di vita. Era lì che fuggivo quando i miei mi sgridavano, è lì che ho fumato la mia prima sigaretta, è lì dove ho dato il mio primo bacio. Era sempre lì dove pensavo di nascondermi, per non dover mai crescere, ma la vita da adulto mi ha trovato anche lì e mi ha trascinato, afferrandomi con gli artigli, nel mondo reale.
Odiavo la vita vera, perché mi strappò via mia madre quando avevo solo sedici anni, mi costrinse ad andare a cercare lavoro all’estero, ad abbandonare tutto quello che avevo qui. Divenni come loro, come tutti, lavoravo per comprarmi cose che non potevo permettermi, non avevo più tempo per rilassarmi, da dedicare ai miei passatempi. I giorni liberi che avevo li passavo in qualche maledetto bar a bere birra scadente o in qualche scantinato a iniettarmi qualche nuova economica droga asiatica. Berlino era immensa, una città che ti dava tutto ma che risucchiava tutta la linfa vitale che avevi, come un gigante che beve una Fanta con una cannuccia. Avevo bisogno di tornare a casa.
Era da dieci anni che ero partito, tornando a casa solo un paio di giorni all’anno, ma non ero più tornato in quei campi che erano stati il mio rifugio per tanto tempo. L’anno prima la vita si era portata via anche mio padre. Peccato, mi sarebbe piaciuto andarci con lui a vedere il tramonto in mezzo a quei filari di mais, ma non importa.
Svoltai a destra lungo la stradina asfaltata, era più lunga di quanto la ricordassi, ma questo perché si erano aggiunte un’altra dozzina di case e avevano dovuto portare la civiltà fatta di asfalto e lampioni più avanti. Continuai a camminare, mentre alcuni visi grigi tiravo le tende per vedere dove stava andando quel vagabondo. Chiusi gli occhi e dopo qualche metro sentii la strada dissestata e polverosa che iniziava. Aprii gli occhi e cominciai a correre. I campi c’erano ancora, ma era come se fossero privi di quella magia, di quella vitalità che avevano un tempo. Nessun verso di animale, nessun pipistrello che volava nella notte, nessuna lucciola. Feci qualche altro passo nell’appezzamento di maggese, poi mi lasciai cadere sulla schiena e mi misi a fissare le stelle.