Di cosa vado a scrivere?
Di situazioni paradossali, di persone assurde che si palesano in occasioni particolari dove ci aspetteremmo un'accoglienza diversa.
Sono incontri talmente incredibili da acquistare un senso comico delirante, ai confini della realtà.
Scrivo “Facciamo finta che...” per permettere a chiunque di tranquillizzarsi pensando che queste cose non possano accadere e, a chi credesse di riconoscersi, di non farmi causa, visto che: “Ogni riferimento a persone esistenti o a fatti realmente accaduti è puramente casuale”, forse...
Inizia il viaggio di “fantasia”.
Una giovane e gentile psicologa mi accompagna nello studio del medico che mi prenderà in consegna per decidere a quali terapie sottopormi.
Il dottore non alza neanche gli occhi dai fogli che sta guardando, saluto gentilmente e pongo la mano, me la stringe rapido.
Non riesco a vedere il suo sguardo neanche per un istante.
Mi accomodo.
Silenzio.
La psicologa sorride imbarazzata e si posiziona lateralmente alla scrivania, spalle alla finestra.
Silenzio.
Leggo la targhetta sul camice del medico, il nome e il cognome hanno a che fare con felicità e vita.
Sorrido e, per spezzare il gelo, dico: “Con un nome così bello, posso sperare in un sorriso...”
Nessun cenno, come se nessuno avesse parlato.
La psicologa in un crescendo di imbarazzo sussurra: “No, il dottore non sorride molto.”
Gelo polare.
Silenzio.
La dottoressa arranca cercando di soddisfare la richiesta di aiuto nel mio sguardo, sorride e dice: “Nel caso perdesse i capelli, noi abbiamo un servizio che chiamiamo di -Trucco e parrucco-...”
La voce del medico irrompe nella conversazione: “Con questo farmaco li perderà sicuramente!”
Emerita testa di c... Ti ho chiesto niente???
Non hai alzato lo sguardo, mi hai rivolto la parola per la prima volta solo per sparare una bordata sotto la chiglia e, sono pronta a giurare, sia sbocciato un sorrisetto bastardo di grande soddisfazione in quel viso che ancora non ho avuto l'onore di guardare direttamente.
Torna il silenzio.
Altra vagonata di gelo, la psicologa non ha più argomenti, continua a sorridere e lo sguardo è quello di chi si scusa per colpe non sue.
Decido che non c'è più nulla da dire e aspetto che “sua maestà” faccia la prossima mossa.
Scorre il tempo e, finalmente, mi pone davanti il foglio da firmare per il consenso informato elencandomi rapidamente tutto quello che potrebbe succedermi, morte compresa.
Ritirando il modulo a testa bassa dice: “Il nostro obbligo è di fornirle le cure più giuste.”
Ma no... caragrazia... e chi l'avrebbe mai detto?!
Ancora silenzio.
Poi dice che deve pesarmi e misurare la mia altezza perché non si fida di quello che dicono i pazienti.
Scrupoloso, ma se avesse evitato l'appunto sulla non fiducia avrebbe guadagnato punti.
Ci alziamo per andare dove c'è la bilancia e il centimetro, mi trotterella davanti senza preoccuparsi che io stia al passo.
Volta un attimo la testa e: “Le ho detto della visita ortopedica?”
Io: “Visita ortopedica???”
Lui: “Si, per il busto.”
Io: “Il Busto???”
Lui: “Per evitare che la colonna vertebrale collassi.”
Cribbio!!! Un colpo alla nuca sarebbe stato meno violento e più compassionevole.
Lui continua, passetti rapidi, a trotterellare davanti a me senza voltarsi, non ha ritenuto di fermarsi o di fornire ulteriori spiegazioni, io mi accorgo che le mie gambe si stanno impicciando e vorrebbero optare per la fuga, ma arriviamo nella stanza, mi dice di salire sulla bilancia, guarda il peso, mi guarda, pensa ad alta voce di togliere un chilo perché sono vestita di tutto punto, poi decide di no.
Mi fa accostare al muro abbassa sulla mia testa l'aggeggio che segna l'altezza, poi scende con un metro da sarta e decide che le mie scarpe da tennis hanno un tacco di 3 centimetri!!!
Fa il conto sottraendoli alla mia altezza e, bontà sua, chiede: “Le risulta?”, rispondo che mi risultavano un paio di centimetri in più, altro sorrisetto sghimbescio e: “Con l'età ci si abbassa.”
Interessante, in un sol colpo è riuscito a farmi sentire una nana grassa!!!
Strano che non abbia anche aggiunto qualche anno alla mia età, così, tanto per gradire.
Altra trotterellata, si torna nel primo studio e lui si reimmerge nelle carte.
Sempre silenzio.
Mi stufo, mi alzo e comincio a fare dei piegamenti per scaricare la tensione ed ecco un suo nuovo intervento a testa bassa: “Fossi in lei, con quello che ha, non lo farei!”
Chiedo: “Ma parla del cancro o della chemio che dovrò fare?”
Lui, lapidario: “Tutt'e due.”
Mi risiedo, gambe divaricate, gomiti sulle ginocchia, pugni sotto il mento, lo guardo intensamente, chissà se alzerà gli occhi?
No, non lo fa.
Dalla stampante escono i risultati dei miei esami del sangue, lui li guarda con un'aria molto seria facendo facce.
Parlerà?
Non parla.
Aspetto un tempo più che ragionevole poi mi informo sugli esiti del prelievo, di malavoglia, sempre senza guardarmi dice che va tutto bene.
Sembra gli dispiaccia e “recupera” chiedendo se m'ha detto che mi possono venire dei trombi.
D'istinto e per rabbia rispondo: “NO!”, la psicologa scatta in sua difesa e lo rassicura sul fatto che mi ha detto tutto.
Si, probabilmente ha detto anche questo, insieme a tutto l'elenco delle catastrofi che la loro “medicina” potrebbe provocarmi, ma io sono un po' distratta perché dal primo momento continuo a pensare ai motivi per cui sono venuta a curarmi qui.
Ho rinunciato alla certezza di centri all'avanguardia, di una professionalità certa e controllata, di un'organizzazione meticolosa, perché?
Perché volevo sentirmi accolta, perché volevo sentirmi trattata come un essere umano e non come una cartella clinica.
Perché volevo un sorriso!
Uscendo da quello studio, nella mia mente un'unica domanda:
“Se uccido quel mostro travestito da medico, mi danno le attenuanti visto che ho il cancro e ho agito nell'interesse dell'umanità?”