Non mi era mai successo, nei miei viaggi precedenti, di essere accolta sul suolo indiano in questo modo insolito e misterioso; in taxi, sulla superstrada che da Mumbai porta in collina, il disco del sole che sorgeva improvviso e immenso davanti ai miei occhi spaccando l’orizzonte, mi è apparso come l'augurio di un risveglio alla consapevolezza.
Le vibrazioni diverse nell’aria si facevano già sentire!
Continuando il viaggio, ho visto, (ma con quali occhi mi chiedo) la terra spalancarsi e la complessa voragine delle sue viscere mi si è aperta davanti dandomi le vertigini, come sull’orlo di un precipizio.
Con gli occhi chiusi dallo stupore ho sentito pulsare in me, nell’oscurità totale da cui ero penetrata, una presenza mai avvertita prima che celebrava osservando silenziosa il perpetuarsi dell’eterno gioco della vita e dei suoi misteri.
Forse questo è il perché, sin dall’inizio, dell’India e della sua gente ho amato tutto: le espressioni sublimi e sordide insieme alle incongruenze, contraddizioni, assurdità e paradossi. Forse questo regalo è stato la ricompensa alla mia storia d’amore di più di trent’anni.
Ora capisco quella trepidazione che provo - e non solo io - scendendo dall’aereo, quel senso di mistero che avvolge il visitatore e fa accelerare i battiti del cuore come all’avvicinarsi di uno spazio sacro.
L’India è esigente: se glielo permetti, ti assorbe nel suo vuoto, e allora ti vuole tutta, senza riserve e ti fa dimenticare ogni altra cosa.
In fondo c’è qualcosa di vero nel sentimento diffuso tra gli indiani, e che consideravo presuntuoso, che chi viene in India dall’Occidente deve dimenticare tutto e abbandonarsi a qualcosa di totalmente sconosciuto. Quello che però trova è unico: da nessun’altra parte mi sono mai sentita così vicina a una porta spalancata sul divino.
Adesso so che vengo in India per “perdermi e ritrovarmi”. Le vibrazioni nell’atmosfera sono alte: mi portano dolcemente ma fermamente dentro di me e mi fanno sentire “a casa” “nutrita nell’anima”.
Per decenni – nei miei lunghi soggiorni – c’è stata dapprima la sorpresa e la meraviglia dei colori, degli odori, dei profumi, dei suoni, di una vita diversa da quella conosciuta, che permea ogni cosa. Per anni ho giocato con le spezie, i gioielli, le pietre e le stoffe. Poi è stata la scoperta del silenzio della meditazione e del linguaggio senza parole col quale gli indiani amano circondarsi.
Respirando nell’aria la grande ricchezza spirituale lasciata da tutti gli illuminati passati e presenti su questa terra, mi è parso di vedere, in questo vuoto, la sorgente che li fa sbocciare: un nulla colmo di tutto che in India è accessibile dovunque a chi può sentirlo.
Questo invisibile mistero lo percepisco nelle strade, negli occhi delle persone che non sanno di viverlo, nel caos frenetico della città.
Ho scoperto che questo fascino eterno esiste come corrente sotterranea permanente e reale, che dà vita anche alle sue infinite manifestazioni chiassose a oltranza, invadenti, multicolori e inspiegabili.
In ogni sua piccola parte questa terra è uno spazio sacro. Come il baniano, l’albero che esprime il mistero profondo dell'India e non a caso ne è il simbolo nazionale: le sue radici sospese nascono filiformi dai rami, scendono dall’alto, crescono nel vuoto, spaccano il terreno e chiudono il cerchio diventando altri tronchi ben radicati nella terra. Estendendosi intorno alla superficie dell’albero originario creano una famiglia “allargata” di tanti baniani, in perfetto stile con la tradizione indiana, ma soprattutto con il succedersi di quell’eterno gioco della vita che si espande e rinnova senza fine.