Quando andai da Lui la prima volta indossavo un abito bianco con una fantasia nero blu, incrociato sul davanti e un paio di scarpe aperte, nonostante fuori imperversasse il temporale.
La prima frase che mi disse fu: "Quando piove, i pazienti sono sempre in ritardo". L'anticamera della simpatia. Già ero affranta per quell’incidente che mi aveva costretto a letto per delle settimane, pioveva ed ero in ritardo davvero... Smorzato anche l'ultimo entusiasmo, mi arresi: al dolore delle ossa, alla pioggia, alla voglia di scappare e seguii il medico nello studio.
La seconda volta che Lo raggiunsi pioveva ancora.
Arrivai in orario.
Indossavo un abito ocra con la gonna a frange e una giacca nera di Aspesi.
Quando mi vide, disse: “Ah, è qui!”.
Ero seduta di spalle rispetto alla porta d’ingresso degli ambulatori.
La voglia di scappare era ancora latente ma quel dottore si stava prendendo cura di me.
Avvertivo empatia.
Della visita apprezzai il tono professionale, il distacco, lo stetoscopio freddo sul mio petto e l’email che mi inviò la sera stessa. Di commiato, risolutiva, definitiva.
Ero guarita.
Mi ritenni al sicuro.
Risposi, prima, con un: “grazie e a risentirci”, e poi, qualcosa tipo: “siamo proprio sicuri?”.
No, non lo eravamo.
Gettai la rete e pescai.
La volta successiva ci incontrammo.
C’era il sole, ovunque.
Jeans & giacca.
Arrivai in anticipo.
Feci credere alla mia testa di non sapere perché fossi lì.
Il medico mi accompagnò tra i corridoi dell’ospedale mentre l’uomo venerò la donna.
Abituata a prendermi cura degli altri mi feci condurre, guidare e servire.
Mi piacque.
Fu così che mi prese.
Quando rimanemmo senza argomenti, il desiderio sopraggiunse.
La presenza della folla mi sostenne.
Mi condusse alla macchina.
Mi nascosi dentro.
Mi sentii predata.
Venne a scovarmi.
Trovò la mia mano che mi tradì.
Cercò la mia bocca che mi difese, troppo vicina alla testa per cedere.
Misi in moto.
Mi diressi verso l’uscita.
Il sole d’autunno aveva sciolto la voglia di scappare per lasciare spazio al destino.