Il fumo della sigaretta che immancabilmente accendi dopo aver fatto l’amore. Sale verso l’alto. Ma non solo. Piega anche un po’ sulla destra, quasi cercandomi, un ultimo fantasma di carezza dopo che tu sei crollato del tutto, il piatto sporco del desiderio consumato che mi sgocciola addosso il suo liquame. Tossisco e mi giro. Smetto di guardarti, le tue mani grandi, che sanno afferrare, stringere. E catturare eventuali ragni vaganti per la stanza impedendone la fuga attraverso la gabbia delle dita. Quest’ultimo punto per me molto importante. Mi giro e mi mordo. Da sola. La pellicina del mignolo. Quella attorno all’unghia. Un pezzo secco e già mezzo staccato ma quando provo a tirare sono guai. Poco dopo è sangue. Sangue e dolore. E odore di fumo, che immagino uscirmi insieme al sangue dalle vene. Mi alzo per andare alla finestra. Tu che dici le mie chiappe assomigliare a una grossa mela succosa e le vuoi addentare. Rido, ridi. Ma finisce lì. Scosto le tende e le chiome secche degli alberi mi fanno riflettere sul fatto che è quasi autunno. Quindi un’intera stagione. Ossia: un’intera stagione che respiro fumo passivo. Nient’altro. Chissà cosa direbbero esseri superiori che vivessero sopra una stella vedendomi laggiù, alla finestra, nuda, guardare a mia volta verso il basso, mai verso l’alto; se guardassi verso l’alto, con un cenno, il linguaggio dei gesti, o altro ancora che magari conoscessimo solo noi, me lo direbbero. Sicuro. Me lo direbbero senza dubbio che sono un'idiota, perché è così. Loro che tutto vedono e sanno. Io vedo solo chiome sfinite dalla ciclica legge del tempo che passa, e la città, la sua faccia bitorzoluta di case e palazzi, segnata dalle strade come da inguaribili cicatrici e rughe, capelli grigi d’asfalto e smog negli occhi. Poi mi accorgo che è il mio riflesso nel vetro sporco del motel, sovrapposto a quello del paesaggio esterno.
Mi accorgo anche delle tende. Ed è una rivelazione. Perché fanno schifo, come il resto, ma il punto non è questo. Il punto è che le conosco a memoria. Segno che le sto vedendo troppe volte. Tanto da avere voglia di lavarle: salire con la sedia, strappare il velcro, appallottolarle e buttarle in lavatrice con mezzo tappo di detersivo e uno piccolo di ammorbidente. Non più di trenta gradi, ciclo breve, se le tolgo appena termina non le devo neanche stirare. Si perché ormai si possono catalogare sotto la voce “sottospecie di famiglia”. Tu invece no. Tu non vuoi. Ce l’hai già una famiglia. E tende che beatamente ignori. Il punto è che non decidi. Tua moglie. O quella sottospecie che ormai è diventata. Il punto è che prometti. Prima di portarmi qui. Al motel Aurora. Prima di addentare le mie chiappe succose come una mela. Prima di accendere e consumare un’altra sigaretta. Prometti che la lascerai. Non c’è più nulla tra di voi. Dici. Nulla. Solo vent’anni di vita insieme, un figlio, una casa, un cane. E sconfinata tristezza, aggiungo io. Ebbene, ecco cosa direbbero gli abitanti stellari. Se solo alzassi gli occhi direbbero: Attenta! Questo non è vivere, è consumarsi. Sì. Come una sigaretta, rispondo io. Una bianca e nuda sigaretta. Il punto è che non faccio niente di quello che penso, salire su con la sedia, strappare, appallottolare, lavare e riappendere che sembrano nuove. Forse anche belle. Quantomeno profumate. Non faccio niente perché l’ospite stellare che si è trasferito nella mia pancia è ancora in fase critica. I tre mesi fatidici non sono del tutto passati e le sedie mi sanno fin troppo di caduta accidentale. Di corsa all’ospedale. Di “ho una brutta notizia per lei”. Di formali “mi dispiace”. Aborto spontaneo.
Quando mi giro per guardarti di nuovo ti sei addormentato. Adesso sembri tu il neonato, un grosso neonato peloso, mostruoso, eppure estremamente fragile. Per te sono già passati tre mesi ma niente. Così mi rendo conto di quello che sei. Solo ora. Solo ora, guardandoti capisco: è finita. Spontaneamente, come un aborto, sei rotolato fuori dal rapporto prima del tempo, e quello che vedo tra le lenzuola, adesso lo so, è solo un involucro. Un costume carnevalesco. Sull’etichetta c’era scritto “uomo ideale”. Il motel, le tende, tutto quanto, solo una copertura di questo umiliante fatto. Mi accarezzo la pancia. Figurati se mi sogno di abortire, come da te paternamente consigliato, con la scusa che sono ancora giovane. Dove “giovane” sta in realtà per “sola”. Comunque non importa. Non più. Sbuccio un mandarino e lo succhio fino all’ultima goccia. Poi, seduta sul bordo del letto, mi accendo una sigaretta. Si, una delle tue. Coincidenza vuole che sia proprio l’ultima. La accendo e guardo il fumo salire, salire, e piegare il lungo collo da serpente verso di te. Lo seguo ipnotizzata finché la cenere non è troppa da reggere. Allora la sigaretta spicca il volo. Compie una traiettoria che termina in parabola, decollando dalle mie dita con atterraggio finale tra le lenzuola. La guardo, piccola luce di stella lontana, illuminare il cotone bianco, poi crescere, diventare una fiamma-bambina vivace e affamata.
Sorrido. Perché ad averci perso, in fondo, sei tu. Tutto quanto, dall’inizio. Nessuno può dare la colpa a me se hai esagerato con i sonniferi. Si sa che i consumatori seriali tendono all’abuso. E nemmeno possono accusarmi se hai smarrito la carta di credito. Me ne vado, senza fare il minimo rumore nel chiudermi la porta alle spalle, come ogni volta, mentre tu dormi. Del resto ho sempre odiato il fumo.