Il buongiorno del mattino fu il ruggito del brigadiere.
- ”SVEGLIA A A AA!!”-
….. Ma fu subito addolcito dalla cioccolata calda più buona che avessi mai bevuto e da un panino appena uscito dal forno. Fuori i primi raggi del sole illuminavano le cime delle montagne, disegnandole in un cielo terso ma ancora sfumato di tenebra. Il freddo pungente mi svegliò definitivamente, montai in macchina e raggiunsi la segheria.
Così i primi giorni passarono fra la caserma e il greto del fiume, ma una mattina incontrai una pattuglia di vigili che aiutati da una grossa ruspa rimuovevano pian piano una catasta di arbusti e tavole spezzate.
Sotto si intravedevano il braccio e la testa di una donna.
La ruspa si era fermata per consentire ai vigili l’estrazione. Il brigadiere che dirigeva l’operazione mi raccontava delle due cassette di limoni che gli aveva inviato il comandante per proteggere i suoi uomini da malanni e prevedibili infezioni e così dicendo mi si accasciò di colpo fra le braccia piangendo come un bambino, logorato dallo stress e dall’infinita stanchezza e tristezza.
Ci allontanammo mentre gli tenevo un braccio sulla spalla per coprirlo ai suoi uomini e dargli almeno il tempo di ricomporsi.
Fu così che alzando gli occhi mi accorsi dei resti umani tra le fronde di un albero che aveva resistito alla valanga furiosa.
Mi occupai io di recuperarli e chiuderli nei sacchetti.
Portai tutto a Fortogna dove due tende della croce rossa servivano da ufficio per il censimento e l’identificazione dei corpi seminudi, straziati e in via di decomposizione.
Spruzzati col disinfettante venivano sistemati dietro alcuni teli dove i medici e qualche volontario li ricomponevano, mettendo poi in bustine i pochi oggetti rimasti addosso ai poveri corpi, comprese eventuali protesi. Tutto per l’eventuale riconoscimento da parte di superstiti o parenti lontani.
Lavoro lungo, terribile, c’era poca gente disposta a maneggiare queste povere anime. Una continua processione di mezzi intasava gli spazi adibiti all’accoglimento e l’odore del disinfettante misto alla decomposizione aleggiava pesantemente rendendo difficile trovare volontari.
Una crocerossina prese in custodia i sacchetti che avevo portato, mi ringraziò e si avviò verso la tenda, ma di colpo si fermò, si girò e mi chiese se per caso non me la sentivo di dare una mano lì da loro, almeno per quel giorno.
Rimasi fino alla mia partenza. Un mese dopo.
Non potrò mai dimenticare quello che ho vissuto fra quelle tende, fatti che sento il dovere di narrare per dare almeno in queste povere righe giusto valore a eventi e persone.
Primo fra tutti quell’operaio di una fabbrica di cucine che da Padova arrivò in Motom, piccolo motociclo degli anni ‘50,’ 60.
Avevo scoperto che la notte dormiva in una delle tante bare ancora libere, coperto di giornali e con qualche robusto sorso di grappa in corpo per superare il freddo.
Lui da solo già meriterebbe un libro sano, ma una grande vita resta immensa anche in poche righe.
Prima faceva il minatore.
Un giorno l’esplosione, il crollo, perdita di conoscenza, poi l’aria fresca, una pacca sulla spalla e una sola parola :
-Tovarisc…-
Sopra di lui il sorriso in una faccia nera di carbone che poi sparì nella confusione dei soccorsi.
Lui cercò a lungo il suo salvatore russo, ma non riuscì mai a rintracciarlo e a ringraziarlo come avrebbe voluto.
Da allora, ovunque servissero volontari, lui arrivava e restava sul posto anche a costo di perdere il lavoro. Grazie a un giovane prete amico, riuscimmo a trovargli una sistemazione più dignitosa per dormire. Conoscemmo anche sua moglie che non avendo più avuto sue notizie si era però immaginata dove trovarlo. Gli disse solo di tornare presto….
Una sera dopo cena passammo dall’accampamento di Fortogna.
Sotto una tenda mezza aperta intravedemmo dei volontari che disinfettavano una sola gamba alla fioca luce della lampadina pendula.
Quest’ immagine ce l’ho ancora negli occhi. Nitida. Terribile.
L’arto era stato tranciato dal corpo all’altezza del bacino e parte della pelle del pube ancora attaccata sbandierava sotto il soffio dell’erogatore.
Poi quella stessa sera qualcuno ci sbarrò il passo all’ingresso del deposito delle bare dove i poveri resti giacevano in attesa dei vari controlli.
Erano i due carabinieri di guardia, quelli “cattivi” con il basco nero, ma erano proprio agitati e spaventati come bambini.
Ci dissero che i morti li stavano chiamando! Pensammo che l’ex minatore fosse tornato a dormire in qualche bara ed entrammo a verificare. Ma uno strano rumore ora lo sentivamo anche noi ed era cosa più semplice ma decisamente più macabra: le bocche aperte dei cadaveri amplificavano i gorgoglii della decomposizione…
Rassicurai i due della Fedelissima che non si trattava di un risveglio ante giudizio universale e li portai con me oltre le tende per convincerli che non c’era nulla di misterioso o diabolico….. se non la semplice morte.
Un'altra storia misteriosa fu quella dei regali.
La sera quando riprendevo la macchina trovavo sempre qualcosa, magari una bottiglia di grappa e un ciambellone, una confezione di biscotti e una bottiglia di vermut. Mi faceva piacere, certo, ma mi imbarazzava non sapere chi ringraziare e una sera lo dissi proprio ad alta voce immaginando che la persona fosse lì attorno a spiare la mia reazione. Nulla, silenzio assoluto. Allora decisi di farle io le poste al misterioso benefattore, così una mattina mi accovacciai nel campo di granturco dove, a ridosso, parcheggiavo la macchina.
Dopo poco furtivamente, anzi mi vien voglia di dire tomo tomo cacchio cacchio, chi ti vedo arrivare? Il giovane prete che, guardandosi attorno, apre svelto la portiera e infila dentro vari generi di conforto.
Schizzai fuori dal nascondiglio con un gesto scherzoso della mano come a dirgli briccone ti ho scoperto. Ma perché lo faceva di nascosto? Lui rosso come un peperone, quasi stava per piangere. Mi spiegò che era stato ordinato da poco e gli avevano assegnato quella piccola parrocchia.
-“…. il disastro, tanti morti. Poi sei arrivato con i tuoi amici e con semplicità e tanto amore vi siete presi cura di queste povere anime mentre io . . .io . . . ho paura dei morti, non ne avevo mai visti. Per benedirli aspetto che chiudiate le bare, sì, sono un pessimo prete ma io . . . mi fanno tanta paura e la notte se prendo sonno li vedo che mi guardano”-
Insomma la sua era un po’ gratitudine e un po’ un modo per placare i sensi di colpa.
Singhiozzava e lo abbracciai, gli dissi di calmarsi e che questa cosa sarebbe rimasta un segreto tra noi, dissi anche che se gli faceva piacere poteva seguitare a rifornirci sempre di nascosto.
Con il tempo cominciò ad abituarsi e ci sorrideva mettendosi un dito davanti al naso come a dire “acqua in bocca”. (SEGUE)