L’indomani solita -SVEGLIA A A A - nell’orecchio dal tuonante brigadiere cerbero, poi, rassicurato e scaldato dalla solita cioccolata fumante, raggiunsi quello che ormai tutti chiamavano il cimitero di Fortogna ma che per me era solo il punto di ritrovo.
Ormai rinfrancato dallo spavento della sera prima restai in attesa con gli altri che insieme a me avrebbero dovuto fare una consegna tanto infelice.
Poco dopo arrivò l’ambulanza dei vigili del fuoco. Scese un militare romano che già mi conosceva.
-“Ciao Tarzanne damme ‘na mano”-
Caricata la piccola bara ci avviammo verso un paesino di montagna di cui ricordo solo che aveva un nome cortissimo, forse tre, massimo quattro lettere. La passeggiata, se così la vogliamo chiamare, fu lunga e tortuosa.
Il fatto che fosse comunque considerata un incarico distensivo può dare l’idea di cosa erano gli impegni assolti nei giorni precedenti.
In ogni modo c’era un gran silenzio. Quella piccola bara pesava sul cuore.
Poi il mio compagno di viaggio, un po’ per volta, cominciò a parlare a mezze frasi delle sue esperienze, delle settimane appena trascorse e soprattutto dell’orrore che un padre di due bambini provava nei ritrovamenti di altri bambini straziati.
Così raccontai anch’io quello che provavo, perché anch’io adesso sentivo il bisogno di aprirmi, di dire a qualcuno quanto fossi cambiato e cresciuto in quei giorni e allora lo dissi finalmente che ora mi sembravano inutili e stupide tante cose e invece capire quanto fosse effimera la vita me la rendeva ancora più preziosa.
Dissi anche quanto ormai sentivo come cosa mia quella terra e i suoi superstiti. Quanto cuore avrei lasciato a loro e in quella valle, dopo aver ripreso non tanto la via di casa, ma la via di tutti i miei giorni vuoti e senza valore.
Arrivammo finalmente al paesino. Poche case, nella piazzetta ci aspettava un gruppetto di persone.
Ci fermammo, scendemmo dall’ambulanza e scaricammo la piccola bara portandola dentro una casupola che ricordo di un solo locale e attigua a un altro tugurio, forse una stalla.
L’unica stanza era stato adibita a camera ardente. Un tavolaccio, dei fiori e ai lati, sempre sul tavolaccio, due candele.
Posammo la piccola bara bianca al centro, i parenti presero posto attorno, le donne piangendo e gli uomini imprecando. Restammo un attimo poi uscimmo in silenzio. Sotto di noi si apriva uno stupendo panorama che correva sino alle montagne di fronte. Tanta bellezza faceva quasi male.
Ci guardammo facendoci segno come a dire è ora di andare e stavamo per risalire sull’ambulanza ma fummo subito raggiunti da quelle persone a lutto. Ci fecero capire che dovevamo rimanere e ci sospinsero di nuovo verso la povera camera ardente.
Restammo a bocca aperta….
Il tavolaccio, dove poco prima era la bara, adesso era imbandito!
Piatti con vari tipi di panini, polenta fritta, frutta e vino.
-”Accettate prego accettate”-
Era una litania incessante e noi fermi e impalati come due spaventapasseri…
-“Prego è poca cosa ma prego accettate”-.
La strada di ritorno la facemmo in silenzio, ogni tanto ci guardavamo ma non sapevamo che dire.
Eravamo inebetiti.
Eppure sentivo confusamente che c’era qualcosa di profondamente bello in quello che era successo, perché è tanto aleatorio in fondo il concetto di felicità. Per quei superstiti era ridotto ad accontentarsi di un corpo ritrovato a cui dare semplicemente sepoltura. Ma era pur sempre felicità. Felicità che a tanti altri era stata negata.
Cominciò il periodo delle piogge e i corpi non si trovavano più. Decisi con i miei amici che era ora di tornare a casa, ma prima di andarmene deposi una corona di fiori ai piedi di una grande croce. Era fatta di alti tronchi forse presi dal fiume. In cima una targa di legno che se la memoria non mi inganna faceva parte della caserma distrutta dei pompieri nel paese travolto.
C’era incisa la scritta ”UBI MAJOR MINOR CESSAT”.
Poi passai con gli altri dalla caserma che ci aveva ospitato per prendere le nostre cose.
Ad attenderci, scuro in volto, il burbero brigadiere. Seguì attentamente i nostri movimenti, ci accompagnò senza profferire verbo ma secondo me pronto a sbraitare qualcosa tipo:- “Era ora, vi volete sbrigare pappe molli!”- .
Al cancello della caserma ci girammo per dargli la mano. Era rosso in volto e non l’alzava la sua per stringere la nostra! Ma con voce roca sussurrò:
- “Le strade sono piene di foglie e piove. . .state attenti si slitta.“ –
Gli occhi gli si riempirono di lacrime, ci abbracciò ripetutamente, poi si girò di scatto rientrando nel suo guscio, la caserma, e lo sentimmo imprecare - “Maledetti bocia”-.
Il viaggio di ritorno fu come scivolare nel buco nero della normalità.
Ero cresciuto così in fretta che tutto ora mi appariva inutile banale, la solita vita il solito tran tran, ma una cosa mi premeva ancora.
Vedere LEI, abbracciarla, baciarla e nascondere così in qualche angolo buio dell’anima mia il grande spavento.
La cosa mi riuscì subito, la incontrai che tornava dalla farmacia e mi parai davanti. Era ancora più bella, mi sorrise, ci sedemmo in macchina, non le dissi nulla ma si lasciò abbracciare e ci scappò anche qualche bacio.
Poi ci lasciammo e ci perdemmo di vista, ognuno per la sua vita, ognuno con i suoi errori da commettere. Ma nel cuore sempre e per sempre un ricordo d’amore. Però anche questa è un'altra storia.
Qualche tempo dopo ricevetti una busta arancione con su scritto COMUNE DI LONGARONE.
C’erano due foto su un unico foglio rettangolare, una del paese prima del disastro e una dopo.
Quella la conoscevo bene per averla vista tutti i giorni della mia permanenza. C’erano anche poche righe che devo ammettere ancora oggi nel rileggerle riescono a commuovermi.
-“Siate benedetti voi che ci soccorreste nella tribolazione e ci infondeste coraggio quando ci stringeva il terrore e cercaste e seppelliste i nostri morti e foste i nostri fratelli quando tutto era crollato intorno a noi”.
A firma:
I SUPERSTITI DI LONGARONE A TUTTI CHE VISSERO ACCANTO A LORO NEI GIORNI DELLA SVENTURA.