(Soundtrack suggerita, senza vincoli perché la libertà è sacra e carburante per racconti come questo: “Rebel rebel” by David Bowie)
17 giugno.
Mi avevano detto essere un periodo perfetto per venire in Germania, così sai cosa, caro diario? Ho caricato tutti i miei risparmi - poca roba, credimi - su un nuovo conto che mi hanno permesso di aprire i miei vent’anni appena compiuti e, con nient’altro che uno zaino che una volta usavo per andare in gita, in poche ore ho accumulato le mie t-shirt preferite e due paia di jeans, qualche felpa e tutti i miei boxer, Wilde e Bukowski, la mia amata trousse di trucchi e sono partito. Ho comprato un biglietto di sola andata. Destinazione: Berlino. Fa un po’ ridere che le uniche parole di tedesco che conosco siano “danke”, “Wasser”, “Schokolade” ed uno striminzito “Ich bin ein Junge”. Mi preoccupa la cosa? No. Anzi: nein! So bene l’inglese. Me la caverò. Mi avevano detto anche questo: che in Germania se sai un po’ d’inglese riesci ad orientarti, poi il resto viene da sé. Più o meno. Ah, cara psicoterapeuta: sei fiera di me? Sto scrivendo con accanto due ragazzini dai capelli così biondi da sembrare bianchi. Mi batte forte il cuore e ripenso a quando, ieri, mi hai detto di lanciarmi, di non avere alcuna paura e, soprattutto, di lasciarmi dietro ogni pregiudizio che finora mi ha toccato sporcandomi, impedendomi di spiccare il volo. Lo avresti detto che entro 24 h sarei davvero partito? Mi hai dato il nome di una psicologa che lassù, in Germania, tu conosci e alla quale hai parlato di me. Lascia che trovi un lavoro e andrò a trovarla. Mi avevi detto di non affezionarmi a te, perché non sei né mia madre né mio padre, quindi mi tengo quest’eccitazione e mi accontento con un sorriso sghembo stampato in faccia di salutarti con un semplice messaggio su whatsapp, raccontandoti per l’ultima volta di me, di cosa ho avuto il coraggio di fare. Gioco con il piercing sulla lingua e, se potessi, farei una linguaccia verso il panorama che vedo dal finestrino, una burla alla mia vecchia vita, ma me la tengo per me, mi permetto giusto di sogghignare. Mi prenderanno per matto? Non lo sono, credetemi. E poi mi hanno detto che dove sto andando in cerca di un futuro migliore sono tutti un po’ matti, ma senza timore. Mi sgranchisco il collo, mi guardo attorno: magari una di queste persone avrà voglia di offrirmi una birra tra poco, quando arriveremo in aeroporto. Forse mi accompagnerà verso l’hotel nella mia prima corsa nella metro berlinese, e mi insegnerà come raggiungere un centro per l’impiego, domani mattina. Mi toglierà dagli occhi gli ultimi ricordi di mamma e papà che non mi hanno notato uscire di casa nel pomeriggio e che, ieri sera, senza la minima idea che non mi avrebbero rivisto per un bel po’ speculavano su quanto fossi stato sciocco ad essermi disiscritto da economia? L’odore dell’aeroporto, dei pittoreschi mercatini di Mauerpark mi farà dimenticare il disinfettante di mia madre, il dopobarba di mio padre che troppe volte si è appiccicato anche alla mia faccia dopo discussioni muso a muso? O lo farà il profumo di un anonimo ragazzo incontrato in qualche minimarket, quello del fumo diffuso assieme alle luci al neon di un locale notturno? Ho paura e mi sento coraggioso. Possibile? So che quando scenderò avrò in bocca il sapore di sigaretta e dei falafel presi come cena. Spero anche quello della bocca di qualcuno, perché mi serve per dire a me stesso che qui “Alex non si deve vergognare di nulla”. “Qui Alex può tutto. Scrivo sullo smartphone in attesa che si smaltisca la coda ai chioschi per i biglietti della metro. Fuori c’è un pallido sole, so già che non mi colpirà in faccia la tipica afa di casa, quando sarò per la prima volta all’aperto in questo paese. Mamma mi scrive e mi chiede perchè non le ho detto che non mi sarei fermato a cena. Papà è arrabbiato, mi dice. Oh, che sorriso rilassato che ho sulle labbra. Lo noto nel riflesso di uno specchio, di uno schermo spento. C’è la risposta ad un annuncio per la ricerca di una persona per occupare una stanza in un condominio poco lontano da Mitte. Cancello la notifica di famiglia. Do l’ok per quella proposta. Qualcuno mi viene vicino, in un tedesco alle mie orecchie perfetto mi chiede se sono di Berlino, se mi va di bere una birra. Conosco qualche pub? Un club? Neanche lui ha un bagaglio più grande di uno zaino. Non conosco nessun club, nessun pub. Neanche lui. E’ francese, credo. E’ carino. Di certo non sa di disinfettante, né di dopobarba. Di certo non studia economia in un’università decrepita. Domani sarà un ricordo per me, io lo sarò per lui, ma vogliamo entrambi saltare, sembra ovvio. Un battesimo, a modo nostro. Sembra abbastanza a posto. Caro diario, noto che mi osserva mentre stiamo entrambi in piedi in metro. Mi piacciono i suoi orecchini. Credo gli piaccia la ciocca rosa che sporge dietro il mio orecchio, tra i capelli castani. Ascolto “Rebel rebel” di Bowie, e non mi importa cosa stia ascoltando lui mentre ci osserviamo di straforo, mentre ognuno sbircia sprazzi di Berlino dai finestrini. Un giorno mi importerà cosa ascolta chi mi fissa, ma non oggi. Devo provare così tante cose. Riuscire. Sbagliare. Ah, potrò fare errori. Finalmente, cara psicologa. Scopro che mi battezzerà la musica di un locale techno, stasera. Proviamo. Sono pronto a tutto. Con il peso di Wilde e della trousse sulle spalle scopro che la prima lingua di Berlino è morbida, e mi fa eccitare come un bambino. Perché come un bambino? Non mi vergogno. Nessuno indica la mia ciocca rosa, i vestiti presi al mercato, così come nessuno addita il bacio tra due ragazzi, lo sguardo intelligente che ad alcuni dà sui nervi, da dove provengo. Credo mi innamorerò di Berlino. Uno spiraglio delle mie emozioni? Da quanto non succedeva? Credo mi piacerà decidere, un giorno, in questa città di essere pronto a sentirmi davvero libero. Non torno, mamma. Compro una birra e dei preservativi. Un currywurst. Che ridere i sandali con le calze. Li metterò anch’io? Nah. C’è una bancarella di libri usati sotto l’hotel che mi ospiterà per qualche notte. Caro diario, sorrido. E’ più eccitazione che paura, sai?