Il sole stava tramontando sulla baia e la città era avvolta dagli ultimi raggi di sole. I riflessi dei grattacieli si specchiavano sull'oceano come pennellate di colore su una tela. Era l'ora di punta- the rush hour- fiumi di auto e persone iniziavano ad affollare le strade. La città si sarebbe vestita a notte solo più tardi per lasciare spazio al silenzio che precede l'arrivo del nuovo giorno. Questo era il ritmo di Manhattan.
Osservavo il panorama dal venticinquesimo piano della Trump Tower. Lavoravo a New York da dieci anni e non immaginavo posto migliore al mondo dove vivere. Avevo studiato legge a Milano e mi ero specializzata in diritto internazionale. I vestiti smessi di mia cugina, le scarpe comode e robuste, il panino di mia madre nello zaino, e molto altro, mi rendevano diversa dalle mie compagne di università. Studiavo in Bocconi grazie a una borsa di studio. Ero nata umile ma ambiziosa.
Mi laureai a pieni voti e ciò mi permise di entrare in uno degli studi legali più famosi di Milano. Iniziai la gavetta tra uffici di tribunali, sale riunioni e aeroporti fino a che, una multinazionale americana, mi offrì uno stipendio da capogiro per diventare responsabile dell'area legale del gruppo. Un attico a Tribeca, un autista a mia disposizione e l'ufficio sulla Quinta Strada, non mi fecero esitare. Avevano raggiunto il successo grazie al cosiddetto "sogno americano”. Peccato aver scoperto che quel sogno si può infrangere in pochi istanti. La rabbia bruciava ancora dentro di me.
Seguivo, da mesi, una trattativa difficile. Un colosso giapponese voleva mettere le mani sulle quote di maggioranza della nostra multinazionale. Mi affiancarono una nuova risorsa per aiutarmi, proveniva dall'area finanza, Anna Chapman. Era una bellissima donna, formosa e con i capelli rossi. La sua espressione algida svelava le origini russe. La sua bravura mi rassicurò e presi a confidarle gli aspetti più riservati della trattativa. Fino a poche ore prima, pensavo di potermi fidare di lei.
Una riunione annullata mi fece cambiare i programmi della serata. Erano le sei di sera e l'autista mi chiese se volessi tornare a casa. "Mi riporti alla Trump Tower". Volevo esaminare di nuovo dei documenti che erano rimasti sulla mia scrivania. I giapponesi stavano ritrattando ancora sull'offerta iniziale e non si trattava di ribassi ingiustificati. Avevano messo in luce quei punti di debolezza dell'azienda mascherati, per anni, a revisori e consulenti.
L'ufficio era deserto e mi sorpresi di trovare la porta del mio ufficio socchiusa. Seduta alla mia scrivania c’era Anna con le mani sulla tastiera del mio personal. Accesi la luce e la vidi prima sbiancare, poi arrossire e infine sorridere come se mi stesse aspettando.
“Che ci fai qui?” le chiesi.
“Niente... Io... Stavo cercando un documento per... Scusami! Me ne vado subito.”
Urtò dei fogli che caddero e mentre seguivo la sagoma del suo corpo il mio sguardo si posò sulla chiavetta Usb inserita nel mio computer. Il logo del colosso giapponese era impresso sulla sua superficie smaltata. Tutto mi fu chiaro. Sentii le ginocchia cedermi e una scossa attraversarmi il cervello.
“Cosa cazzo ci fai qui?” le gridai.
Le mie urla richiamarono la sicurezza mentre Anna cercava di scappare. Ecco perché la trattativa non si era ancora conclusa. I giapponesi non erano più abili dei consulenti a leggere tra i numeri, erano solo informati. Da una spia. Mi ero fatta incastrare.
Nelle ore che seguirono arrivarono gli agenti di polizia e il comunicato stampa: ero rimossa dal mio incarico. Non avrei più potuto ricoprire quella posizione all'interno della multinazionale e in nessun’altra azienda.
Riposi gli ultimi dieci anni della mia vita in uno scatolone e me ne andai. Ero fuori dal gioco e fuori dal sogno.
“Chi troppo si fida spesso grida”.