Pippo e Angela (anzi:
l’Angela) erano una coppia media. Non si può dire fossero felici, perché le preoccupazioni quotidiane non lasciarono mai loro il tempo di esserlo. Però, in fondo, erano sereni.
Agli accidenti di ogni giorno rispondevano in modo omogeneo: lui con il fatalismo dei siciliani indolenti (“
E booonuu…”; “e uora videmu…”); lei affidandosi gelidamente alla Provvidenza (
“Dio provvede…”), salvo detestare l’uno il modo di reagire dell’altra, e viceversa, anche se portavano entrambi alla stessa conclusione.
Sì, perché erano
u cani c’a iatta, capaci di litigare per ore, con strascichi di broncio di giorni a volte, sostenendo esattamente la stessa medesima cosa.
E d’altra parte non poteva che essere così: Pippo era un siciliano della costa ionica, ma le sue origini erano dell’entroterra etneo, emigrato in Continente alla fine degli anni cinquanta. L’Angela era nata sulle montagne della Valtellina.
Il loro era stato tecnicamente definito, sotto il profilo razziale, un matrimonio misto. Le foto del loro matrimonio sono lì a dimostrarlo, anche plasticamente. Il gruppo dei parenti di lui,
niri,
curticeddi e bordellari, sovrastato dall’imponente figura d’
u ziu Ninu con i suoi terrificanti foltissimi baffi neri. Il gruppo dei parenti di lei, bianchi e rossi a chiazze come le mucche pezzate, allegri come i crisantemi, per natura inabili alla risata.
U ziu Nino, discretamente alticcio, tolta la giacca, continuava a chiedere “
Bbacio, bbacio!” battendo ritmicamente le mani e coinvolgendo cugini e compari, in un vortice di allusioni volgarissime alle divinità della fecondità, e si lanciava dionisiacamente nel rito della Mazurka di Migliavacca.
I parenti di lei lo guardavano agghiacciati come statue di sale.
Gli uni pensavano che la polenta fosse il mangiare delle galline e che il riso “
solo i malati di stomaco se lo mangiano”. Gli altri che qualche compare lì invitato avrebbe potuto prima o poi estrarre la lupara e fare fuoco sugli invitati. Insomma: un casino.
Piano piano, però, i gruppi si erano leggermente integrati, al punto che
la Linda e
la sciura Piera, le più estroverse dei valtellinesi, avevano accettato di partecipare a una specie di
giro giro tondo augurale (ché di mazurke neppure se ne doveva parlare!), al termine del quale, però, si erano ritirate tutte
affruntate.
***
Quando gli annunciò che intendeva sposare una
muntanara, suo padre non alzò neppure lo sguardo dal
panaro di vimini che stava intrecciando.
“
E chi nn’ha ffari?” gli domandò, asciutto come un osso, sputando il fumo di una pipa di schiuma.
“E’ giusto” pensò Pippo, abituato a ritenere che il padre avesse ragione sempre e comunque.
Ma poi se la sposò ugualmente, l’Angela, e in fondo i primi ad esserne contenti furono proprio i suoi genitori, e in particolare la mamma, preoccupata per quel
carnaluvari quasi quarantenne di figlio signorino, peraltro gravemente esposto ai rischi morali e materiali cui notoriamente una città nordica espone i
carnaluvari quasi quarantenni e signorini.
Il giorno in cui si festeggiò il fidanzamento viene ancora oggi citato dalle cronache familiari.
Si trattò, come da tradizione, di una visita che i genitori di lui, Carmelo e Carmela (tanto per non sbagliare), fecero ai genitori di lei.
Appena usciti dall’ascensore, stanchi per il lungo viaggio provenienti dalla Sicilia e molto emozionati, i genitori di lui furono accolti dal papà di lei, Mario, non meno emozionato e un filo imbarazzato, anche perché nella concitazione del momento, gli era caduto addosso la boccettina del profumo.
“
Scusino” esordì rosso in faccia “
el me cadùu el gingin de la colonia. El me par de ves una vechia bagascia”.
Di tutto il discorso e del relativo contrattempo i genitori di lui non capirono nulla. Solo l’ultima parola accese un vago campanello d’allarme nel nonno Carmelo, che aveva fatto il militare a Treviso, anche se non riusciva a capire cosa c’entrasse il concetto cui lui ricollegava il vocabolo
bagascia con quanto si andava a compiere lì, a Milano, quel giorno di maggio.
Per il resto la visita scivolò via senza troppi intoppi, in un trionfo di bicchierini di rosolio, inchini e salamelecchi. Le due “controparti” non parlarono molto tra di loro, quanto meno non lo fecero direttamente. Non per altro: perché non si capivano. I due consuoceri usarono molto il linguaggio del corpo, soprattutto per raccontarsi delle reciproche esperienze belliche. Molto più difficoltosi i tentativi di spiegazione delle tecniche di pesca delle costardelle e del pescespada nello stretto di Messina. Le consuocere, molto più riservate e sedute lontane tra loro, si affidarono ad ambasciate affidate ai rispettivi figli, che avevano il compito di tradurre negli idiomi originari domande sul gradimento dei cibi offerti e su tecniche di preparazione di pietanze tipiche.
Gli unici momenti di tensione si ebbero a causa di Nives.
Nives era una vecchia amica di famiglia, vicina di casa e vice mamma per l’Angela, invitata a partecipare alla festa di fidanzamento.
Costei, ogni volta che il nonno Carmelo raccontava uno dei suoi aneddoti di guerra o delle sue mirabolanti avventure di mare, punteggiava il racconto con i suoi: “
Ma noooo!”, “
Ma va laaaaa!” volendo manifestare stupore e ammirazione, più che incredulità. Ma questa finezza non era raccolta dal nonno Carmelo che, ad un certo punto, indispettito sbottò rivolto al figlio: “
Ma chi fa? Non mi cridi??Ma piddaveru??”. Onde evitare incidenti diplomatici, la Nives fu spedita a preparare il caffè, mentre il discorso fu spostato su argomenti standard.
Quando, poi, Pippo, dopo aver ricevuto numerose sollecitazioni dalla madre, porse l’anello di fidanzamento all’Angela, furono tutti contenti. Applausi e commozione. Si trattava di un anello di brillanti che la nonna Carmela fece ricavare da un vecchio orecchino che suo marito le aveva regalato alla nascita del figlio. Dopo una lunga, complessa e laboriosa spiegazione, anche i genitori dell’Angela capirono. E apprezzarono molto.
Andando via, la nonna Carmela disse al marito: “
Avemu n’autra figghia”. E aveva ragione.
***