La parte più estenuante di quelle giornate era la preparazione. Una specie di rito composto da fasi precise, che si ripetevano sempre nello stesso ordine, cadenzato e pesante, come quella goccia che ogni notte, cadendo, puntuale, ti toglie il sonno e ti risucchia le energie nervose.
Tutto aveva inizio con una doccia o un bagno (il secondo più indicato, ma non sempre aveva tempo a sufficienza per farlo) rigorosamente da farsi con guanto di crine e bagnoschiuma profumato. A seguire, un’attenta ispezione allo specchio: nuda, davanti al riflesso del suo intero corpo. La curva dei fianchi era la stessa del giorno prima e di quello prima ancora o si era deformata? Allargata? Ristretta? No, ristretta no, questo era sicuro. L’incavo dell’ombelico, le spalle spigolose, le ginocchia fuori asse a rompere la linea delle gambe. Sembrava tutto come al solito. Forse c’era un lieve gonfiore del ventre ma niente di percettibile da occhio umano che non fosse il suo. Una lozione per il corpo alle erbe e un paio di gocce di profumo sul collo, poi biancheria di pizzo nero e qualche colpo di spazzola prima di procedere con la messa in piega. I capelli venivano temporaneamente raccolti in una coda morbida, per procedere con il trucco. Crema idratante, fondotinta, cipria, tanta cipria trasparente, una linea decisa tracciata con l’eyeliner nero, mascara, un tocco di pesca sulle guance. Alla fine la bocca. In quei giorni bisognava dipingerla di rosso, faceva parte del rituale. E anche se odiava la sensazione appiccicosa del rossetto e aveva l’impressione di andarsene in giro con le labbra tumefatte, non saltava mai quel passaggio, perché era importante quanto gli altri. L’ultima parte era l’unica a subire qualche variazione a seconda delle giornate: la scelta del vestito. Certo, era difficile che non si trattasse di un abito nero, ma poteva cambiare il taglio, la lunghezza, l’altezza delle scarpe, e il mercoledì, solo il mercoledì, un dettaglio: un nastro di velluto tra i capelli, un giro di perle.
Oggi tacco a spillo 12. E un foulard rosso di seta perché è mercoledì. Il rumore dei passi attutito dal tappeto dell’hotel. Un piede davanti all’altro con la falcata veloce di chi sa bene dov’è diretto: stanza 404, sempre la stessa. Si siede sul letto, le mani sulle ginocchia, e nelle orecchie solo il rumore del battito del suo cuore. Sempre più incalzante. Così forte che quasi lo confonde con i colpi alla porta. È arrivato.
È quella volta della settimana in cui non ci sono soldi da contare mentre si riveste. Ma resiste, non si volta a guardarlo andare via. Bussano. Si fionda alla porta. È tornato? No, è solo il primo cliente della giornata. Fanculo, è in anticipo.