Dai adesso non dire così, ti stai buttando giù, non è facile riprendere una vita normale dopo tanto tempo e in queste condizioni, vedrai che qualcosa si muoverà.»
«Per favore capo, non tiri in ballo adesso la provvidenza o lo spirito natalizio che dovrebbe rendere tutti più buoni. Queste sono solo fesserie per i bambini, la realtà è tutta un'altra cosa. Bene, se questo è tutto credo che possa andare no? Lo ha detto lei che sono un uomo libero, allora la saluto e vediamo la mia stella dove mi condurrà se sotto o sopra un ponte.»
«Su aspetta un attimo, non affrettare le cose, dammi il tempo di pensare, questo genere di situazioni non si risolve in pochi minuti, devo pensare, fare qualche telefonata, certo non ti faccio uscire sapendo che potresti commettere qualche sciocchezza. Resta seduto e lasciami fare dei tentativi.«
«Come crede direttore, se vuole perdere del tempo faccia pure, io non ho nessuna fretta di andarmene.»
Mentre io mi sistemo meglio sulla sedia, lui si mette al telefono e, numero dopo numero, parla velocemente con il suo interlocutore. Il suo viso ogni volta che riaggancia diventa sempre più scuro, sudato, la rabbia si sta impossessando di lui. Ha fra le mani una gatta da pelare e non riesce a risolvere quel problema. Un detenuto che rifiuta l’uscita per passare il Natale in carcere, una situazione grottesca che poteva inficiare il suo buon nome. Doveva e voleva porre fine a quella storia. Ancora un numero, un’altra telefonata e questa volta vedo un lampo nei suoi occhi, le rughe della fronte si spianano e dopo alcuni minuti posa il ricevitore con calma. Dopo un naturale e prolungato sospiro si asciuga il sudore dalla fronte e si rivolge verso di me.
«Caro Francesco, hai visto che con un po' di pazienza alla fine tutto si risolve. Ho trovato per te una sistemazione ottimale. Vedrai ti troverai bene e sono sicuro che trascorrerai un bellissimo Natale. Sai che cosa farò ancora per te, ti farò accompagnare da un mio agente. La località dove devi andare è lontana e credo che da solo non ci arriveresti. Faccio tutto questo perché sei una brava persona nonostante tutto e non posso permettere di mandarti in mezzo a una strada, la mia coscienza me lo vieta. Quando mi capitano elementi come te mi fa piacere aiutarli. Il rientro in società dopo anni di carcere è sempre traumatico. Spero che vorrai tener conto dei miei consigli e dell’aiuto che ti ho dato, non mi combinare pasticci mi deluderesti parecchio.
«Signor direttore lei si è prodigato nel volermi dare un motivo per uscire da questo posto e questo lo apprezzo moltissimo e la ringrazio, purtroppo, non posso fare promesse che forse non sarò in grado di mantenere. Non se ne abbia a male, non è colpa di nessuno, è la vita che ti offre sempre delle strade con dei bivi, sta a noi poi scegliere la via giusta. Andrò dove mi porterete e farò del mio meglio, non chiedo di più. Spero vivamente di non tornare più fra queste mura. Sono pronto! Non mi resta che augurarle anche se in anticipo un felice Natale che immagino trascorrerete con la famiglia. Abbiate sempre cura dei vostri cari, credetemi ne vale la pena.»
Nel pronunziare le ultime parole mi alzo quasi con la mano tesa per stringere quella del direttore, invece, lui mi attira a sé e mi abbraccia con calore. Era un momento imbarazzante, non sapevo che fare se ricambiare o assumere un atteggiamento distaccato, per fortuna bussano alla porta e ci stacchiamo in fretta, assumendo un comportamento che doveva sembrare indifferente. Era l’agente incaricato di scortare il detenuto. Tempo cinque minuti, io Francesco P. detenuto modello uscito di prigione ero seduto al fianco di un agente che lo stava accompagnando nel luogo scelto dal direttore. Durante il viaggio osservo attentamente il paesaggio che stiamo attraversando. Una campagna piatta, con campi coltivati di diverse colture. Quei vari quadrati di diverso colore sembrano una coperta patchwork. Vedo una distesa di terra arata e scura, so che è stato da poco seminato il grano. Di lato un grande rettangolo di verde, verdure che a occhio sembrano broccoli. In un tempo lontano conoscevo bene il lavoro agricolo. Poi ho insegnato a gruppi di ragazzi lezioni di una lingua morta omettendo di spiegare loro il ciclo della natura, delle albe, dei tramonti, del profumo del fieno tagliato e l’odore della terra bagnata quando piove. Poco più avanti attraversiamo un campo di cavolfiori racchiusi in un abbraccio di foglie verdi per proteggere quella massa compatta e bianca. La vettura corre su una strada provinciale, dove le buche sono frequenti e i sobbalzi mi procurano vuoti nello stomaco, non avevo mangiato niente a colazione e ora la fame si stava facendo sentire. Vorrei chiedere all’agente se fosse possibile fare una sosta per mangiare qualcosa, ma guardando intorno non vedo niente di utile. Solo campagna a perdita d’occhio, pochi casolari disseminati alla rinfusa, come briciole di pane sulla tovaglia, anche volendo non saprebbe dove fermarsi. Penso alla situazione che si prospetta. Presentarsi a casa di qualcuno, un agente penitenziario con un ex carcerato non è certo una visita gradita. Proseguiamo verso una manciata di nuvole grigie che si vedono all’orizzonte, sembrano lontane ma in realtà sono più veloci di noi. All’improvviso ce le troviamo addosso e siamo immersi in quella specie di nebbia umida che preclude la visuale. Il mio autista accende le luci della macchina, ma tempo cinque minuti le rispegne. Abbiamo superato le nuvole e siamo alle porte di un paese illuminato da un sole basso, lucente. Le case quasi tutte bianche spiccano sullo sfondo di altre nuvole in arrivo. Ci fermiamo appena prima di entrare in paese. Un sentiero sterrato, largo quel tanto per farci passare un’auto, devia verso destra e conduce dritto a una casa colonica isolata. Nel vederla mi blocco e resto stupito. Il ricordo diventa sempre più concreto. Quella casa mi sembra familiare anche se in quel posto io non ci sono mai stato. Le case coloniche si somigliano un po’ tutte. L’agente che è stato mio compagno di clausura mi distoglie dai pensieri e mi accompagna all’interno. Trovo, in cucina, una donna anziana con un vistoso fazzoletto in testa, mi accoglie con un mezzo sorriso e solo un saluto appena accennato, mentre si avvicina all’autista e lo saluta con simpatia.
«Buongiorno Pasquale, allora questo è l’uomo che mi avete raccomandato? Lo vedo bene anche se ha uno sguardo triste. Siete sicuri che sarà tranquillo, sai che Bonifacio è malato e c’è molto lavoro da fare, e io devo badare a tutto, non vorrei occuparmi anche di questo.»
«Tranquilla Teresa, il mio capo lo conosci, ha garantito per lui, è una brava persona, sta a te fargli capire come funzionano qui le cose. Ora io dovrei scappare, giusto il tempo di un bicchiere di vino, il tuo è proprio buono. In ogni caso per qualsiasi problema basta una telefonata e arriviamo subito.»- «D’accordo se lo dite voi per me va bene, vediamo come va.»