E’ passato. Anche questa volta. Sono stato in buona compagnia.
C’era anche Sheila, figlia di Cristina, 4 anni. A lei il compito ben assolto di dare un tocco di genuinità con quel piccolo urlo magico e innocente quando scopre di essere al centro delle attenzioni di Babbo Natale, figura trascendente, qualche volta vagamente minacciosa che un giorno l’anno si ricorda di lei e le regala quel giocattolo che le piaceva tanto o quel vestito che aveva visto indossare da una compagna d’asilo.
La gioia è palpabile, la mamma è allegra, il papà fa la foto di rito, i nonni si ritraggono silenziosi nella paura di turbare un’emozione.
Rivivono ricordi personali precisi che non si possono condividere con questo essere che si sta affacciando nella storia e che ha idee molto chiare sul suo ruolo nella società dei consumi.
Si aprono i regali premiando una ricerca che diventa di anno in anno sempre più puntigliosa, faticosa ma fortunatamente sempre più razionale.
Arriva il pranzo frutto di un lungo lavoro a causa delle quantità e della tenacia consumata alla ricerca
del sapore perduto.
Battaglia persa con il palato ma vinta sul piano simbolico perché c’è tutto quello che ci deve essere a Natale per ricollegare l’infanzia, il tempo passato e i bis-nonni che caratterizzavano profondamente l’avvenimento. Il tutto attraverso ravioli speciali, crostini di salmone, crostini di fegato, bollito con mostarda di Voghera, cotechino con lenticchie, panettone di pasticceria e frutta secca.
L’atmosfera è distesa. Si vive in quel limbo dorato a metà strada tra la terra e i sogni.
Pur onorando la tavola e la fatica della nonna, il demone del passato che mi possiede, sapendo che il
giorno di Natale è quello dei ricordi spogliati di sacralità che giocano la carta dell’armistizio armato, emerge
e sussurra tentatore la ribellione.
Ma sono solo: non ho logos da spendere in nome di un bisogno che è soltanto mio. Non riesco ad articolarlo con la voce ed anche scriverlo mi è difficile.
Ho fame di silenzio, di sospendere per un po’ il mondo, di ritrovare quel sacro perduto che solo può darmi senso cosi com’è stato per qualche anno nella mia infanzia.
Più mi addentro nelle parole, più pronuncio Natale, più il demone acquista forza. Sa che non voglio arrivare
là dove il collasso delle mie resistenze mi porterebbe ad urlare quello che per me è la mancanza di cibo
spirituale. Come quello materiale, anche in questo caso si avverte con l’assenza.
A differenza della corporeità della tavola imbandita, per saziare quella fame non ci sono ore di lavoro e
d’impegno che spesso sottopongono a veri tour-de-force madri che arrivano alla sera del 25 disfatte.
L’unico cibo a disposizione è la ricerca di metafore, di anagogie.
Una follia appassionata e segreta, pronta a violare le regole non scritte di comportamenti consolidati, quasi liturgici, minaccia d’implosione un vuoto di cui nessuno è colpevole.
Il sacro di cui ho bisogno non vuole alimentarsi di riti obbligatori o dogmi ma solo della libertà di esistere. Uscire, calarsi nella folla, sarebbe l’anagogia più immediata e facile perché celebrerebbe l’invito divino di vivere con il prossimo.
Ascoltare buona musica in silenzio e con attenzione potrebbe essere metafora della voglia di con-dividere emozioni e sensibilità in un ambiente attento.
E questi potrebbero essere solo i primi folli tentativi di riesaminare la propria vita.
Questa possibilità mi ha fatto scoprire che alla mia età la parola “amore” ha contenuti molto difficili ma anche più completi e liberi.
Potrebbe persino trasfigurare il significato della parola Natale, sintesi unica del senso della vita.
Tutto questo lo devo a mia madre, Lina: lei era meravigliosa nel trasformarlo in una vera epifania dell’anima. Attraverso piccoli riti imposti a volte con asprezza comunque sopportabili per un bambino essenzialmente fragile, riusciva a cadenzarne il tempo trasformandolo in una mai dimenticata parusia.
Ma la follia non sarebbe tale se non trovasse il modo di lasciare il segno.
Compio quindi un gesto a me estraneo.
Nel silenzio, in modo nascosto riduco le porzioni di cibo riservatemi. Con il vecchio trucco delle labbra bagnate, non consumo alcool. Di nessun tipo. Credo che nessuno se ne sia accorto. Atteggiamento infantile certo ma è così che ho smesso di fumare: rimandando di un’ora, poi due, poi una settimana poi……. per sempre.
E’ una ribellione contro il culto di una festa diventata pagana. Se non recupero il mio, ripeto, il mio sacro perderò il Natale già profondamente minato dall’assenza cronica di mia figlia Paola.
Il demone è qui accanto a me, non morde ma mi regala qualcosa che ho già incontrato nella mia vita: la
solitudine.
La solitudine non è vivere da soli, la solitudine è il non essere capaci di fare compagnia a qualcuno o a
qualcosa che sta dentro di noi, la solitudine non è un albero in mezzo a una pianura dove ci sia solo lui,
è la distanza tra la linfa profonda e la corteccia, tra la foglia e la radice.
José Saramago, da "L’anno della morte di Ricardo Reis"