Dedicato a mia sorella
Mi chiamo Michele. Sono qui, seduto su un cesso del bagno della stazione a prepararmi una dose.
La prima volta che mi sono fatto il mio amico mi ha detto: “Questa è coca. I ricchi che s’annoiano ed hanno un sacco di soldi la usano per sballare!”
Ho iniziato bene. Con la roba buona. Il giorno dopo però, a casa, ho deciso che non l’avrei fatto più.
Ci tengo alla famiglia; e se l’assistente sociale lo avesse scoperto avrei finito di stare con mio padre.
Bella stronza! Viene a casa ogni due settimane. Secondo me se ne sbatte di controllare come sto, lo fa solo per scroccarmi il caffè. Quello buono, fatto con la macchinetta del bar, unico pezzo superstite dell’attività di famiglia.
Il bar, l’assistente sociale. Tutta colpa di mia madre.
“Vado a Milano tre o quattro giorni per lavoro” diceva. Invece era una corriera. Andava, ingoiava qualche capsula di merda, qualità superiore rispetto a quella che io mi butto nelle vene, e poi tornava indietro. A casa. Prima tappa: in bagno, sul cesso.
Visto? Posso dire di aver preso da lei.
Un giorno una cosa le è scoppiata mentre era in treno. I poliziotti quasi la trascinavano nel sottopassaggio. Non sapevano niente, volevano solo accompagnarla in ospedale. Uno l’ho incontrato al processo, ha la mia età e i baffetti sottili sottili. Scommetto che quel giorno fu lui a spaventarsi più di tutti.
“L’abbiamo acchiappata al volo prima che fosse troppo tardi” testimoniò il medico che si era occupato di lei. Condannata a cinque o sei anni. L’avvocato d’ufficio mi strinse solo la mano dopo la sentenza, risparmiandomi la frase di rito: “Ricorreremo in appello”.
Questo due anni fa. E da allora Annalaura Macchialico si beve il mio caffè.
Ho fatto un conto; mi deve circa quaranta euro, anche di più, perché a volte si porta dietro la psicologa del consultorio. Una ragazzina anche lei, pure niente male.
Dopo parecchi incontri riuscii a sbirciare i fogli del profilo che aveva preparato su di me.
"È un ragazzo difficile", c’era scritto. Mi sa tanto di sedicenne che parlando con l’amica giustifica il fidanzato che la tratta male. Difficile? Io? A me pare semplice.
Mi rompo i coglioni, non li rompo a nessuno e quando davvero non ne posso più mi buco. Non vedo la difficoltà; non l’ho vista nemmeno due giorni dopo quel profilo, quando incontrai il mio amico. Piero, si chiamava. “Hai l’eroina?” “No, ma la prendiamo”. E la comprammo da uno che spacciava a casa di sua nonna.
Era mezzogiorno, la vecchia, gentile, credendoci amici del nipote, chiese se volevamo rimanere a pranzo.
“No, grazie signora. Abbiamo da fare”. "Dobbiamo farci" sarebbe stato più vero, ma nessuno è tanto cinico.
Strano che adesso, in questo posto mi venga da pensare. Sarà che ho la siringa già in mano e so che nessuno me la può togliere. Sarà che tutto è calmo, perché ho chiuso la porta e sto al sicuro.
Piero me lo diceva sempre. Ci facevamo ognuno in un bagno diverso, ma lui dall’altra parte non mancava mai di gridarmi: “Chiudi la porta!”.
Poi, quando avevamo finito e andavamo a buttare le siringhe e il resto, mi raccontava sempre qualcosa. Di quello che era successo ad un amico suo di Pistoia e che, mentre si stava bucando vicino ai lavandini, un altro tossico era entrato e gli aveva fregato tutto; oppure di quella signora che beccò uno e andò a chiamare i carabinieri e quando quelli arrivarono lui aveva ancora l’ago dentro.
Quante ne sapeva Piero.
Ora, anche lui è diventato una storia come queste.
Nell’ultimo periodo aveva fatto il salto di qualità: pusher.
Niente più vene, andava di naso; ogni tanto mi regalava la roba.
Fatto sta che un giorno che aveva tirato di brutto si mette a fare casino e i poliziotti lo fermano; Piero tira un pugno a uno e scappa via. Ha fatto cinquantadue metri. Due dal marciapiede alla strada. Gli altri schiantato da una vecchia Lancia che lo travolse in pieno.
Meglio così, almeno si è risparmiato di finire steso su qualche pavimento sporco di pipì come un incrakkato del cazzo che va in over-dose.
M’hanno detto che quando il padre ha saputo che si drogava e spacciava gli è preso un infarto; pensava che il figlio lavorasse in un call center, invece gli unici telefoni che vedeva erano quelli delle cabine, quando i bagni erano troppo lontani e non ce la faceva a raggiungerli perché stava già male.
Dubito che mio padre se la sarebbe presa. Ormai non conta, è morto. Due volte. La prima, quando hanno arrestato la mamma, ha chiuso il bar e si è messo a lavorare in una fabbrica di sapone. La seconda, quando la fabbrica lo ha licenziato per motivi di bilancio e si è buttato dal balcone della cucina.
La Macchialico, dopo il caffè, mi disse che poteva aiutarmi a trovare un’altra casa, ma rifiutai. Senza sapere perché. Alla fine però, ho traslocato lo stesso.
È capitato che ho conosciuto uno in un locale dove vado spesso con i colleghi dell’impresa di pulizie. Simone, si fa anche lui, di naso e di vene; ma non è un ragazzo difficile. È figlio di papà banchiere, prende la droga per gioco. Aveva un monolocale sfitto e mi ha detto che potevo starci. Ora dormo lì, trasloco è una parola grossa. Mi sono portato dietro i vestiti e la macchina del caffè.
Con Simone usciamo quasi sempre insieme. Io gli faccio conoscere quelli che hanno la roba buona e capita a volte che lui mi offra qualche dose.
Per lui sono Piero, quel che Piero è stato per me: un drogato più vecchio che ti insegna i trucchi del mestiere. La dose è pronta.
Ormai non mi fa più andare in paradiso come prima, basta solo a non sentire niente, a non provare emozioni. Ho deciso. Questa siringa mi porterà all’inferno. È troppa, più di quanta ne possa reggere.
Ma non ha senso andare avanti ed aspettare che accada. Ci ho provato.
Mi sono chiesto perché non dovrei drogarmi. Per mia madre? Non l’ha fatto per me, l’ha fatto per il suo amante che trafficava e l’aveva convinta. Non c’è altro. Non c’è niente. Non sono niente.
A casa ho attaccato una coccarda alla macchinetta del caffè e sopra ci ho messo un biglietto con scritto il nome della giovane psicologa. Affanculo la Macchialico, che vada a farsi fottere.
Poggio l’ago sul braccio e lentamente lo lascio penetrare sotto la pelle, nella vena.
Nel bagno accanto c’è Simone.
“Chiudi la porta” gli dico.
Come me e Piero ai vecchi tempi. Mi inietto la morte.
Tra un po’ Simone uscirà mezzo euforico e mezzo stordito e mi chiamerà.
Ci metterà un po’ a capire che qualcosa non va. Proverà ad entrare; ho lasciato la porta aperta.
Voglio che veda il mio corpo appoggiato alle squallide piastrelle.
Deve rendersi conto che non può finire così. Che non c’entra se sei un ragazzo difficile con la madre in galera e il padre suicida.
Che la droga t’ammazza comunque e sei tu ad ucciderti. Semplicemente.