Orlandino era schivo. Dava l’impressione di affrontare le cose e le persone stazionando di profilo. La costituzione gracile e la statura cauta facevano il resto. Diventava invece un gigante di entusiasmo quando si trovava a tu per tu con quello che si dice il cartaceo.
Era cominciato ai tempi della scuola con la creatività devota agli intarsi di forbice per festoni e decorazioni. Creatività sfociata quasi subito nei colori e nelle composizioni degli origami. Orlandino aveva realizzato un santuario nella sua cameretta e addirittura composto quadri con colonie di micro foglietti piegati in dimensioni impensabili per creature dalle dita normali.
In seguito era stato rapito dalla lettura. Si dissetava avido alla fonte stampata, bevendo con gli occhi e con le mani la forma scorrevole delle parole. Annusava senza ritegno l’odore ipnotico dell’inchiostro. Lo carezzava infinite volte sulle pagine morbide fino a far sollevare una peluria dorata tra le righe brunite. Arrivò ad interpretare una cecità di convenienza pur di imparare il metodo Braille, per poter nutrire la sua immaginazione leggendo anche la notte al buio, contando solo sulla sensibilità dei suoi polpastrelli.
Cresceva in parallelo, tuttavia, una dimenticanza di sé come anello di relazione con gli altri. Appariva facilmente inquietante, una sorta di folletto patologico. Persino sua madre, che a lungo aveva giustificato e ammirato sinceramente le sue passioni, giunse a dubitare del suo equilibrio mentale.
Orlandino restava timido e impacciato e non riusciva a confessare a nessuno quanto gli piacessero le persone. Aveva imparato moltissimo su di loro attraverso i libri, e ne riconosceva i vezzi e le passioni osservandoli non visto. Amava in egual misura i loro sorrisi e i loro bronci. I moti di sorpresa e le sfide di cinismo. Ma non aveva ancora imparato come mettersi in comunicazione profonda con loro.
Nel frattempo giunse il giorno che il destino aveva preparato per lui. Orlandino fece il suo incontro con la scrittura miniata e perfetta dei monaci medievali. Il suo cuore si fece nomade, perso nelle giravolte dei fregi dorati e di porpora. Sostò immoto sugli spigoli impettiti delle lettere antiche fino a comprendere la sua innata vocazione. Non ci mise molto ad imparare. Mentre i colleghi universitari orientavano le loro conoscenze alle tecnologie virtuali, Orlandino si armò di pennino e di inchiostro emulando i maestri antichi, incoraggiato dai maestri moderni versati nell’arte degli ideogrammi.
Orlandino incontrò la felicità. Mano a mano che guadagnava la perfezione nell’impregnare la carta che imitava la pergamena, sperimentava una pienezza interiore mai conosciuta prima. Un giorno che una ragazza mostrò interesse per il suo lavoro osò presentarsi come Orlando.
“Incredibile” ripeteva la giovane ammirando i ghirigori con gli occhi sgranati. Ma durò poco. Qualcosa mutò nella sua espressione. La fronte corrucciata e le labbra tese nell’indecisione di esprimersi. Orlando sollevò lo sguardo sereno verso di lei, interrogativo. Lei sbottò, troppo sincera forse:
“Ma a che serve? Cioè, gli altri che se ne fanno? Metti una serata tra amici. Se sai suonare una chitarra diventi amico di tutti e vi divertite insieme. Se sei un virtuoso dell’inchiostro che fai? Ne versi qualche goccia nel mojito? Fatti un giro al bar, dammi retta che è meglio!”
Scuoteva la testa mentre si allontanava. Orlando rimase sconcertato, domandandosi cosa fosse un mojito. Per fortuna al bar ci era stato diverse volte e il ragazzo che stava dietro il bancone poteva quasi considerarsi un amico. Gli venne voglia di caffè.
Rumbo era scuro come le olive mature e sprizzava allegria e vitalità come al solito. Tintinnavano al tocco del metallo i piattini che lanciava sul banco in attesa delle tazzine fumanti. Orlando passò dalla cassa prima di guadagnarsi una fettina di spazio davanti a Rumbo. Ma il ragazzo non era d’accordo.
“Orlando, oggi ti voglio vedere seduto. Piazzati là che ti porto il caffè al tavolo”.
Il sorriso esageratamente bianco in quel volto bruno.
Orlando obbedì come un allievo davanti al maestro.
“Devi imparare” annunciò Rumbo svuotando il vassoio con tazzina e lattiera davanti a Orlando “prendere il caffè è come pregare, ci vuole il suo tempo”.
Orlando trovò quella frase sbilenca assolutamente meravigliosa e sentì il bisogno di conservarla. Tirò fuori il suo pennino dalla tasca e non avendo altra carta su cui scrivere utilizzò una bustina di zucchero. La grana sottile, candida, resistente scricchiolò piacevolmente sotto le sue dita sensibili. Il pennino lasciò il suo messaggio in miniatura. Perfetto come una stampa millimetrata.
La scena non era passata inosservata a un signore del tavolo accanto, che si era piegato sul braccio di Orlando assecondando la spinta della curiosità.
“Ragazzo mio, ti hanno già detto che sei un fenomeno?”
“Sottoscrivo” lanciò di rimando Rumbo dal bancone.
Orlando non fece in tempo a reagire che il signore incalzò ispirato:
“Sei assunto. Da questa sera ti voglio al mio locale. Scriverai dediche ai miei clienti sulle bustine di zucchero con quella scrittura da monastero che non ci credo se non la vedo. Diventerai una star e ti farai una montagna di amici. Garantito”.
Orlando era stato preso in contropiede e si sentiva girare la testa. Guardò Rumbo che gli sorrise comprensivo:
“E’ la tua occasione amico. Vai tranquillo con questo signore. Come dice lui. Garantito” e sollevò il pollice così in alto che a Orlando la testa girava ancora di più.
Il signore distinto allargò le braccia con lo sguardo rivolto lontano:
“Vedo già i titoli sui giornali, caro il mio ragazzo! Amanuense del terzo millennio comunica con la misura della dolcezza. La scrittura dello zucchero batte la tastiera del pc”.
Orlando pensava e gonfiava i suoi pensieri vibranti nel ricordo delle frasi più belle che aveva letto sui libri, e nella sorpresa gioiosa di quelle che sentiva nascere ora nel suo pennino.