Stava spesso raccolto dentro la poltrona rossa del salotto. Le imposte appena schiuse, piccole strisce di luce disegnate sulla parete affianco. Studiavo il gomito immobile che sporgeva dal bracciolo, coperto da un maglione a volte grigio, a volte marrone. Non era facile intuire se fosse immerso nella lettura o in una pennichella. Temevo di disturbarlo, ma ero curiosa di conoscerlo. Un ospite inatteso in casa nostra. Era molto lontano dalla mia età ma amava i libri e quindi avevamo qualcosa in comune.
Ferruccio era un intellettuale. La sua vita dedicata allo studio, ai pensieri, alla lettura. Me l’avevano descritto così. Non avevo mai incontrato un intellettuale prima di allora. Mi ero imbattuta in quella parola nei libri, ma mai l’avevo immaginata in carne e ossa.
Era malato, di un male molto grave nella testa e i medici dovevano provare a curarlo. Chissà se era stato l’impegno dello studio e della lettura a provocare il male nella testa di Ferruccio. Mi chiedevo se tutti gli intellettuali soffrivano della stessa malattia grave. In effetti quelli citati dai miei libri di scuola erano tutti morti. Ma lui era fuori dai libri e forse si sarebbe salvato.
Finì per accorgersi di me. Acquattata sul limitare della stanza, le mie gambe ripiegate sotto lo scamiciato a quadretti color cioccolato. Aveva sporto la testa malata e mi aveva sorriso. Mentre ricambiavo il sorriso cercavo di individuare una piaga o una sporgenza sospetta sotto i riccioli grigi che incorniciavano il suo sorriso pacato. Ma non c’era nulla. Pensai che forse si erano tutti ingannati riguardo alla malattia. Sembrava una persona come le altre.
Mi fece cenno di avvicinarmi e la penombra mi avvolse come un presentimento. Cercavo le strisce di luce sulla parete mentre mi parlava a voce bassa. Raccontava dei libri e della vita. Non ricordo i particolari, mi lasciavo rapire dai gesti. Aveva sicuramente mani da intellettuale che accarezzavano le frasi come se sfogliassero le pagine di un libro. E labbra scure, l’angolo destro appoggiato intorno a una sigaretta spenta. Le parole uscivano strette, apparentemente piene di e, la forma dei sospiri.
Per alcuni giorni Ferruccio fu il mio doposcuola. Narrava instancabile con i suoi occhi grandi di un beige liquido, nascosti per metà da palpebre generose, piegate sotto il peso di pensieri faticosi.
Ogni tanto usciva per un consulto. Al ritorno conservava l’odore fresco e pungente dell’autunno inoltrato sul gomito del maglione. Mentre lo lasciava sporgere dal bracciolo, il legno della poltrona si trasformava nell’albero che liberava le foglie anziane. Il fruscio delle pagine di un libro era la brezza che spazzava i giardini di quel novembre dorato.
Una mattina, prima della scuola, mi porse un pacchetto. Indovinai subito il contenuto dalla forma e il mio sorriso entusiasta fece più rumore di un grazie.
“Io lo conosco ma voglio sentire i tuoi commenti quando l’avrai letto, per confrontarci” e aggiunse premuroso “quando ci vedremo al mio ritorno”.
Al momento non colsi la portata della seconda parte. Mi lasciai pervadere dall’affetto delle sue mani, che scomponevano piano i miei capelli scuri. Avrei voluto ricambiare con una carezza guaritrice, ma restò solo un pensiero. Ferruccio fuori della poltrona era troppo alto perché potessi arrivare anche solo a sfiorare le onde di cenere dei suoi capelli.
Attesi impaziente il pomeriggio. Ma presi le mie precauzioni. Pensando che fosse un libro di quelli che avevano influenzato la testa di Ferruccio, decisi di proteggermi con un cappellino durante la lettura. Potevo appollaiarmi sulla poltrona rossa. Ferruccio non sarebbe tornato per qualche giorno.
Solo quando terminai il libro, un paio di pomeriggi dopo, chiesi notizie del mio amico intellettuale.
I grandi si fermarono, i loro sguardi tradirono l’inverno. Il mondo intero si fermò.
Una carezza si sospese, per sempre, nel centro nascosto della mia mano. A farle compagnia le parole non dette, nascoste sotto un cappello.