Carmine arrestò l'auto davanti alla tabaccheria di via Orazio, nel quartiere Prati, poco lontano dalla redazione del suo giornale.
Il buio della sera avvolgeva Roma in quel giorno di fine inverno, alla radio davano “Too much Heaven” dei Bee Gees. Si voltò verso Franca, seduta al suo fianco, e le chiese se avesse voglia di andare a comprargli le sigarette, prima di raggiungere il ristorante di Rino per cena. Lei sorrise, aprì la portiera e scese svelta. Come era bella, pensò tra sé.
Aveva conosciuto quella donna cinque anni prima, si era presentata nel suo studio per avviare le pratiche di divorzio. Alta, bionda, con gli occhi verdi e l’espressione fragile, era assistente di volo per Alitalia. Si era sposata con un pilota della stessa compagnia da cui aveva avuto due figli. Un matrimonio felice con qualche difficoltà nel trovare il tempo per stare insieme a causa dei numerosi viaggi.
Fu durante una di quelle trasferte che Franca sorprese suo marito tra le braccia di un'altra donna. Una coincidenza di voli persa e una sosta imprevista, l'avevano costretta a passare la notte a Parigi. Aveva fatto una doccia bollente, avvisato casa del disguido ed era scesa nel bistrot dell'hotel per mangiare un boccone prima di andare a letto. Li aveva visti dai vetri della hall. Stavano passeggiando mano nella mano, lui rideva e se la mangiava con gli occhi. Un uomo che camminava con un cane, nella stessa direzione, li fece fermare. Nello scansarsi, il pilota attirò la donna a sé per baciarla. Quella confidenza non lasciava dubbi sul fatto che non si trattasse dell’avventura di una notte. La coppia entrò nell'hotel e si diresse verso gli ascensori per salire in stanza. A Franca parve che l’anima avesse lasciato il suo corpo. Non toccò cibo, attese che il cuore risalisse dallo stomaco al petto e tornò in camera. Il marito la chiamò poco dopo: “Amore, sono impegnato in una cena di lavoro, domattina riparto all'alba. E’ un vero peccato non passare la notte insieme, trovandosi nella stessa città”. Non le disse che l'amava, come d’abitudine, e neppure la verità. Quando l'uomo tornò a Roma trovò la casa deserta e un biglietto d’addio.
“Chiamami Mino”, disse Carmine a Franca dopo il loro primo incontro. All'epoca lui si guadagnava da vivere facendo l'avvocato e si dedicava al giornalismo nei ritagli di tempo. Rimase colpito dal fascino di quella donna e iniziò a corteggiarla in modo discreto, come meritano le donne ferite. Il loro matrimonio era programmato per fine luglio, lui lo considerava il periodo migliore per prendersi una pausa da “OP”, la rivista che aveva fondato l’anno precedente, nel '78, poco prima del sequestro di Aldo Moro. L'uccisione dello statista, allora Presidente della Democrazia Cristiana, aveva segnato la storia italiana del dopoguerra, favorendo l’ascesa di Andreotti al governo.
Mino aveva pubblicato numerosi articoli su questo caso perché c’era il sospetto del complotto politico. Emergevano rivelazioni così dettagliate da essere considerate indizi per le indagini in corso. Le minacce non tardarono ad arrivare e, in uno dei suoi articoli, il giornalista non escluse di essere in pericolo.
Franca scese dall'auto e si diresse in tabaccheria. Ogni volta che Carmine la guardava nel suo incedere, immaginava quel paio di gambe snelle salire le scalette degli aerei. Come era bella, pensò tra sé. Mentre ascoltava la musica, portò alle labbra l’ultima sigaretta del pacchetto che aveva in tasca.
“….I can see a new tomorrow
ev’rything we are will never die
loving’s such a beautiful thing
when you are to me, the light above
made for all to see our precious love…”
Prese l’accendino tra le mani, con il pollice sfregò la ruota zigrinata e avvicinò la fiamma al viso. Il fuoco e calore che lo pervase fu improvviso. La testa saltò per aria e il cuore uscì dal petto.
Franca, di ritorno dalla tabaccheria, cadde con le ginocchia a terra. Vide un uomo vestito di nero scappare e un velo calare sulla sua esistenza.
“…nobody gets too much love anymore
it’s as high as a mountain
and harder to climb…”
Furono quattro i colpi di pistola che il sicario esplose a Mino: uno in faccia e tre nella schiena. Il vetro dell’automobile frantumato, la portiera aperta, il sangue e l’immagine del cadavere riverso sul sedile fecero il giro del mondo. L'indagine, aperta all'indomani del delitto, coinvolse esponenti dei Nuclei Armati Rivoluzionari e della P2, ma tutti gli indagati furono prosciolti.
La donna se ne andò da Roma. Perdere un amore, in circostanze così tragiche, la fece sprofondare in uno stato di depressione e disgusto per il genere umano. Si trasferì a Parma con i figli, dove era nata. Prima di lasciare la città, svuotò la cassetta di sicurezza che Mino le aveva fatto aprire. Conteneva documenti del generale Dalla Chiesa ritenuti fondamentali per svelare la verità sul caso Moro e i legami tra mafia e politica. Sentendosi lei stessa in pericolo, li distrusse.
Nel 1993 ci fu una svolta nelle indagini sull’omicidio: il pentito Tommaso Buscetta confessò: “Badalamenti e Bontate mi hanno riferito che l'omicidio Pecorelli lo avevano fatto loro, su richiesta dei cugini Salvo, nell'interesse del senatore Andreotti, per metterlo a tacere”. Seguì un nuovo processo che vide il senatore a vita e l’ex capomafia condannati a ventiquattro anni di reclusione. Era il 2002 e sembrava che la parola fine potesse essere scritta sulla vicenda. Non fu così. L’anno successivo, nell’incredulità generale, la Cassazione annullò la sentenza e i due furono assolti dall’accusa d’omicidio.
I giornali accusarono di corruzione la magistratura e lo sdegno pervase l’opinione pubblica.
Il delitto rimase senza colpevoli, mentre le ragioni che portarono Franca a togliersi la vita furono chiare a tutti coloro che l’amavano.