Si chiamava Plinio.
Non era vecchio e nemmeno giovane, probabilmente era stato entrambi.
E io non lo avevo mai sentito nominare, quasi come tutti gli altri. Ricordo il cognome, ma non lo dirò.
La sua mano riviveva a colori paesaggi bucolici e donne chine, velate dal paglierino del fieno, stanche e appesantite come la terra sotto di loro. Ma l’aria al di fuori non era quella del contado, era quella cruda e bluastra di un tardo pomeriggio cascato dal cielo, dinanzi ad uno spettrale luna park senza bambini.
E sebbene fossi a solo qualche centinaio di metri da casa, per cui bastava tranquillamente inzuppare poche decine di volte un’adidas nelle concavità dell’asfalto, così come una macina imbevuta muore nel latte se affogata ripetutamente, in realtà ero a millemiglia di distanza, catapultato in un’altra dimensione, così come un cinese improvvisamente in Congo.
Si chiamava Plinio ed è l’unico di mille altri nomi e volti sconosciuti conservati temporaneamente nella mia memoria.
L’unico da cui avevo bisogno di essere attirato, così come una ninfomane al muro, sbattuta senza un perché, in mezzo a innumerevoli Jep Gambardella, vestiti impeccabilmente in un’arena di cornici dorate, specchi sfarzosi e mobilie cesellate del tardo ‘800.
Pantaloni a quadretti, giacche a quadretti, cravatte a quadretti, giacche a righe, giacche rosse, pantaloni gialli, papillon energici su camicie a quadretti, scarpe lucide e foulard di serie, alcuni a righe, altri curiosamente a pois, ma ormai tifavo quadretti.
L’ultima volta che vidi così tanti colori era stato sulla scatola delle faber-castell, ma io odiavo disegnare e infatti all’asilo imparai il significato della parola disobbedienza, rappresentata da un banco in disparte in un angolo della classe. L’angolo delle mele marce. Ma mai quanto quelle che ci davano in refettorio.
Di fronte ad un vasellame di chissà quale secolo e dai motivi ipnotici l’impellente bisogno di un ritorno al futuro, aprire un’app e sapere i risultati calcistici.
Un plebeo salto di 200 anni in avanti che mi costò lo sguardo ostile di un mercante d’arte, così abile nello star comodo - volgarmente detto culo poggiato - su una sedia imbottita d’incalcolabile valore, da sembrar quasi una statua. Ma la statua migliore, al pensier d’un villano come me, era rievocata da un segugio dalle costole più che evidenti intento a mordersi la coda.
Inaspettatamente i cani (reali, non per forza regali) potevano zampettare liberamente tra quei patrimoni consegnati alla storia, scodinzolare felici tra le vecchie madame con l’ermellino, nonché abbaiare di fronte a qualche cavallo di legno, ovviamente non di Troia, ma a dondolo, di Elena del resto non si sentiva la mancanza.
E già vedevo la mia dolce meticcia, battezzare qualche tappeto Aziz o Cabib, con più zeri di una Zonda roadster sul listino, se non addirittura vomitarci la colazione sopra come l’altra mattina.
E ciò mi sarebbe costata una condanna senza precedenti: fustigazione in Piazza della Vittoria, esilio a Tirana o schiavitù per debiti.
In quest’ultimo caso sarei stato venduto come uno dei tanti quadri lì presenti, magari come uno di Plinio, ma poco importava: avrei dovuto solo aspettare ‘La migliore offerta’.