Mio nonno Arturo non ricordava neanche più quanto tempo fosse passato dalla prima volta che si era alzato alle quattro del mattino per andare a lavorare nei campi. Di sicuro, quando era accaduto, era più basso di almeno trenta centimetri e la sua voce non aveva ancora assunto quei caratteristici toni baritonali.
A quel primo giorno ne erano seguiti così tanti da diventare decenni interi. La sua vita era molto dura e lui stesso s’imponeva una severa disciplina – sveglia al levar del sole e rientro a casa all’ imbrunire – e grazie a tanta costanza e ad altrettanti sacrifici il suo grano era presto diventato il più alto del paese e chiunque nella valle decantava la bellezza e la ricchezza delle sue spighe. Il maggior raccolto era sempre il suo e questo lo ripagava di tutti gli sforzi fatti.
Ogni tanto s’incontrava al villaggio coi suoi vecchi compagni di scuola e ognuno di loro gli raccontava con entusiasmo tutte le nuove esperienze fatte, i luoghi visitati e di quanto fossero soddisfatti della loro vita. Gli domandavano se avesse poi realizzato quel suo desiderio di bambino di vivere in mezzo agli animali, ma lui rispondeva sempre che l’avrebbe fatto non appena avesse avuto un po’ di tempo da sottrarre al lavoro nei campi. Ma le stagioni passavano e il tempo sembrava non bastare mai. Piano piano finì addirittura per dimenticarsi di quel sogno fanciullesco.
Così mia nonna Lucia, che vedeva bene la sua stanchezza e lo conosceva profondamente, un giorno, oltre alla consueta tavola apparecchiata con un sorriso e una deliziosa cenetta, gli fece trovare al suo rientro a casa un cagnolino. Mio nonno ne fu felice, adorava quel cucciolo scodinzolante che gli saltava addosso ogni sera non appena apriva l’uscio di casa. Per quello non riusciva a comprendere a cosa dovesse attribuire l’agitazione del suo sonno, da dove arrivasse quell’inquietudine mai provata prima che lo coglieva non appena si alzava dal letto, quella insoddisfazione per un qualcosa che non si era mai realizzato e che lo accompagnava per tutto il corso della giornata: era il suo sogno di bambino che aveva ripreso a battere forte al suo cuore.
Ma lui non poteva realizzarlo. Non certo ora... questo avrebbe implicato lavorare meno nei campi e, per lui che DOVEVA avere le spighe più belle della valle, era proprio impossibile.
Accadde un giorno che, mentre si avviava a passo svelto verso il podere, un cervo gli attraversò la strada per poi fermarsi non lontano da lui a brucare l’erba. Le sue corna erano maestose e il manto bronzeo sembrava illuminarsi sotto i primi raggi del sole. I fili d’erba e le foglie degli alberi, mosse da una leggera brezza, oscillavano avanti e indietro, come seguissero passi di danza.
Non appena mio nonno cercò di avvicinarsi però, il cervo alzò la testa e, con un improvviso balzo, scavalcò i cespugli e sparì nel bosco lì attiguo. Il nonno lanciò un lungo sguardo alla strada che portava ai terreni coltivati, strinse dapprima la zappa per poi, con fatica, allentare la presa e appoggiarla con cura al troco del Platano.
Seguendo le tracce del cervo si ritrovò ai margini di una radura e lì gli si palesò davanti un’immagine meravigliosa. Cervi, cerbiatti, volpi, leprotti e uccellini multicolori si stavano abbeverando a una sorgente d’acqua cristallina, alimentata da una cascata che sgorgava da delle rocce altissime.
“Ma come?”, si domandò mio nonno, “abito da sempre qui vicino e non mi sono mai addentrato nel bosco? Cosa mi sono perso in tutti questi anni”. Rimase talmente estasiato da quel luogo che perse completamente la cognizione del tempo e, per la prima volta in vita sua, si dimenticò del suo grano.
Tornò invece a casa correndo e, pieno di gioia, raccontò a mia nonna cosa aveva scoperto. Decisero allora di comune accordo di provare a costruire un canale che portasse l’acqua dalla radura fino ai suoi campi. Fu così che, grazie a quella fonte purissima, il grano crebbe ancora di più e le sue spighe divennero le più splendenti che si fossero mai viste.
Ma i miei nonni non si accontentarono di questo. Avevano capito quanto fosse importante e arricchente godere in prima persona di quel luogo incantato, perciò costruirono una casetta su un albero – che chiamarono “Il nostro nido”- nel quale ogni giorno si rifugiavano per assaporare momenti meravigliosi cullati dal rumore della sorgente e dalla visione di quei magnifici animali.
E sai qual è la cosa più straordinaria? Ognuno di noi ha la sua casetta che l’ aspetta da qualche parte. Devi solo ricordati della sua esistenza. Se vuoi, andiamo insieme a cercarla...