«Annaaaaa … Annaaaaa »
Marco sta correndo verso il campo con un fagottino tra le braccia e mi chiama a squarciagola
« Anna, aiutami… »
Mi mette un neonato sul lettino, è esanime, prendo immediatamente l’aspiratore con sondino pediatrico e cerco di asportare più polvere possibile dalle vie respiratorie, mentre lui con dell’acqua cerca di lavare il visino
Mi fermo un attimo ad auscultare il cuore… il battito è lento… inizio con la respirazione forzata, col massaggio cardiaco… niente, non riesco a rianimarlo… dieci minuti dopo dichiaro il decesso… ci guardiamo negli occhi, tutt’e due sappiamo che questa non sarà l’unica sconfitta che subiremo
« Mi dispiace… »
« Lo so, torno a scavare… »
Lo vedo allontanarsi a testa bassa mentre la terra sotto di noi stride e brontola per poi tremare di nuovo…
Tutto il giorno le emozioni si alternano, dall’angoscia alla gioia, le ambulanze e gli elicotteri si danno continuamente il cambio per il soccorso dei feriti, con le ore che passano, arrivano anche altre squadre di soccorso.
Il lavoro si intensifica sino alle sette di sera, orario in cui possiamo prendere una pausa e sdraiarsi un attimo su di un lettino da campo in una tenda approntata per la squadra, in un angolo ci sono i lettini riservati a me e alle infermiere, mi sdraio e cado in un sonno profondo.
Mi risveglio di soprassalto, la terra trema!
La scossa che mi ha svegliata è forte come il boato che proviene dal paese, esco fuori e una nuvola di polvere ricopre le macerie ed oscura le luci dei soccorritori.
I boati si susseguono in ritmo inquietante, i volti intorno a me sono spaventati ed increduli.
Nessuno urla, si piange sommessamente, alcune vecchine si fanno il segno della croce ed iniziano le preghiere, i bambini con gli occhi terrorizzati non piangono e non si muovono, di corsa torno nella tenda dei soccorsi.
Giovanni entra nella tenda con la faccia preoccupata
«Anna, ci serve la tua esperienza tra le macerie...»
Prendo la borsa del pronto soccorso, il casco e mi precipito fuori, mentre Giovanni mi fa il quadro della situazione
« …è uno dei ragazzi… è rimasto sotto, ha una gamba incastrata, per poterlo liberare dobbiamo tagliare una trave, ma lui sta perdendo troppo sangue… ho paura che la frattura sia più grave di quello che sembra »
«Tranquillo, ora vediamo di che si tratta… »
Arrivo in cima al cumulo di macerie e mi rendo conto che lo scenario da questa notte è cambiato… in peggio, non c’è più nessun edificio in piedi. Le lampade alogene illuminano l’entrata sul tetto dove mi dovrò calare per raggiungere il pompiere ferito, il recupero è difficile, ci sono almeno sei persone impegnate e tutte mi guardano preoccupati
« Ragazzi, ditemi la verità, c’è Marco lì sotto? »
« Si, e abbiamo paura che sia messo malissimo… »
Sospiro e faccio un cenno con la testa, il tempo di chiudere il casco e mi calo dentro a quell’ inferno.
Il passaggio è stretto ma ben illuminato, l’odore di polvere e puzzo di gas sono insopportabili, devo scendere tre piani, perché l’edificio è imploso su se stesso come un castello di carte, le scale in cemento hanno tenuto ma ora il peso del tetto e le altre macerie le potrebbero far crollare in ogni momento, l’ultimo tratto lo dobbiamo percorrere strisciando, arrivo nel piccolo vano dove c’è Marco, i colleghi gli hanno messo la maschera con l’ossigeno ed hanno bloccato l’emorragia con un laccio emostatico.
Mentre cerco di immobilizzare la gamba, lui mi prende una mano e con l’altra cerca di togliersi la maschera
« …sei pazzo? Tranquillo, devi fidarti, non ti lascio qui. »
Mi sorride e poi fa il gesto delle forbici indicandomi la sua gamba
«…allora sei proprio matto! Io non devo amputare proprio niente, ora ti immobilizzo la gamba, ti stabilizzo, loro tagliano la trave di cemento e poi andiamo via tutti di corsa. »
Mi stringe la mano e sorride prima di svenire.
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Sono passati otto mesi da quella notte, notte fatta di paura e di solidarietà,di terrore e di piccole gioie… l’ultima volta che ti ho visto è quando ti hanno caricato sull’eliambulanza per portarti in ospedale, poi solo notizie sporadiche tra il dolore e la fatica di quei giorni…
Sono le otto di sera e firmo in uscita dall’ospedale, dopo un turno di 12 ore. Mentalmente ripasso tutte le mosse che devo fare per arrivare a casa, compreso passare ad un supermercato ed acquistare il latte e il caffè altrimenti niente colazione, poi metto gli avanzi dell’arrosto in forno a microonde, così posso cenare senza cucinare… niente televisione, lavo i denti e via, a letto voglio dormire per 10 ore di fila… Mentre sono assorta nei pensieri un cane, un golden retriever, mi si avvicina, infilato sotto la pettorina ha un mazzetto di rose rosse con un bigliettino:” Grazie dottora”
«MARCO!!! »
Mi guardo intorno in cerca del volto amico, con il cuore in gola.
Lo vedo a pochi metri da me, ha le stampelle, il tutore alla gamba ed è pallido, dimagrito, ma il sorriso illumina ancora il mondo che lo circonda, corro ad abbracciarlo mentre continuo a chiamarlo
« Anna, sono qui tranquilla… »
« Scusa ma non ho più avuto tue notizie… ed ho pensato che non ti avrei più rivisto… »
« Scusa tu, se ci ho messo troppo tempo a cercarti, ma… »
Il cane inizia a fare le feste e a mugolare di gioia
« Seduto Doc! Buono »
«Ma… come si chiama il cane?»
« Si chiama Doc , ha sei mesi, da quando i ragazzi me l’hanno regalato, lui non mi ha mai lasciato solo e mi ha aiutato con la riabilitazione, mi è stato vicino quando ero triste e pensavo di non farcela… insomma, quello che hai fatto tu quella notte. »
Sorrido e sento le lacrime di gioia che mi scendono sul viso.