Si credeva selvatica la passerina chiusa in gabbia. John l’aveva comprata per pochi soldi al grande “Mercato delle cose che appaiono e non sono”, che si teneva ogni mille anni nella “Piazza dell’ultima occasione” al centro del paese “Dell’eterna illusione”. Così John se la portò a casa e l’appese al lampadario di ferro battuto che ciondolava inutile al centro della sua camera da letto. Dal suo baldacchino di sandalo, John la guardava incantato, felice di quell’acquisto inatteso. La passerina svolazzava contenta fra le pareti della sua prigione di ferro esibendosi in voli acrobatici di tutto rispetto, e non perdeva occasione di ringraziare il suo salvatore per averla scelta fra tutte le infinite cose illusorie che popolavano il Grande Mercato.
E fu così che John se ne invaghì perdutamente. Quella dolce e seducente passerina dalle piume dorate aveva di un tratto aperto un varco fra le mura arroccate della sua anima, e un profumo di fiori di campo a primavera pervase di gioia tutto il suo essere.
“Ho deciso di darti un nome”, le dissi John, “Ti chiamerò Stella del mio cuore”. La passerina annuì commossa, e una lacrima blu cobalto, scivolò prudente fino a sfiorare le sue labbra impazienti. Esplose l’amore, e una passione incontenibile travolse come una gigantesca onda ogni altro pensiero, bisogno e desiderio.
Il tempo si svuotò, lo spazio cadenzava in un perenne, circolare di emozioni, di fantasie e di promesse di eterna fedeltà.
John sbrigava in tutta fretta le sue faccende quotidiane, per poi correre dalla sua passerina che lo aspettava trepidante ogni notte, ogni notte, ogni notte. John si accomodava nel suo grande letto di legno di sandalo e l’ammirava estasiato. “Ti amo amore mio, ti voglio, ti voglio, sei mia.. si, tua… amore mio… mio adorato, mia Dea, mio Re… amami, amami, ti voglio adesso, non posso vivere senza di te… abbracciami forte, e baciami, baciami ancora..”. Tutto questo John e Stella del mio cuore si ripetevano incessantemente per ore… fino al mattino, quando, stremati, si abbandonavano fra le braccia di morfeo come corpo morto cade.
La passerina dalle ali dorate, pulsava, si apriva, si bagnava, morbida, invitante, e Jonh, come in un sogno ad occhi aperti, ci si infilava dentro rassicurato da quella calda e avvolgente tana.
Un piacere lussurioso si mescolava al lascivo abbandono, in un tale amplesso di gemiti e sospiri da fare cantare a gloria gli angeli del paradiso.
“Sono selvatica, sono selvatica”, ripeteva spesso la passerina, “Portami via da qui… non ne posso più, il cielo è la mia casa… voglio volare via con te oltre le cime innevate dei monti, fra le fronde degli alberi, sui deserti infuocati, sopra il mare e fin oltre le stelle”.
Quel giorno John si alzò di buonora, e mentre la passerina dalle ali dorate consumava il suo ultimo sonno, aprì la porticina della piccola gabbia, e accarezzando amorevolmente le sue morbide piume, la invitò ad uscire per qualche minuto, e assaporare così l’ebrezza del libero volo. Stella del mio cuore, sorpresa, sgranò gli occhi – timidamente e con fare incerto si diresse verso l’uscita, ma subito si ritrasse, rabbuiò, stringendosi indispettita fra leali dentro un sordo risolino di disapprovazione. “Non mi sposto da qui per solo qualche minuto”, disse in tono perentorio. Una lama di fuoco trafisse il cuore di John, che per un attimo barcollò. “Vieni stella del mio cuore… non avere paura, ti insegnerò a volare”, disse John con voce tremula. “Apri le tue ali, ascolta il tuo cuore… ci sono io con te – non dubitare”. La passerina non rispose, reclinò il capo e si rannicchiò come infreddolita in un angolo sul fondo della gabbia.
Non era una passerina selvatica, e John in cuor suo lo sapeva.
Non sarebbe mai davvero uscita da quella prigione per involarsi con John dentro gli spazi infiniti della beatitudine. Quella libertà le faceva paura, e solo dentro la piccola gabbia avrebbe potuto sopravvivere ad essa.
Tutto ammutolì. Il tempo riprese a scorrere, lo spazio a dilatarsi, il varco si richiuse nell’anima di John, e gli angeli del paradiso sospesero il loro canto.
La notte si fece ghiaccio, e il letto di sandalo, una zattera alla deriva nell’abissale oceano della rassegnazione.
Mille anni dopo John staccò la gabbia dal lampadario e l’avvolse con una sua vecchia camicia a quadri, dai colori spenti. Si diresse verso il “Mercato delle cose che appaiono e non sono”, e una volta sul posto, riconsegnò la merce al suo legittimo proprietario.
“Non posso restituirle i soldi… sono passati dieci secoli da quel giorno”, disse visibilmente indispettito il commerciante. “Non voglio soldi”, rispose secco John, “Anzi, si tenga anche la camicia… è di fattura buona, è robusta… ci può fare un bel gruzzolo”.
Il vecchio venditore tolse la camicia e scoprì la gabbia. “Non c’è nessuna passerina qui... la porticina è aperta, cosa me ne faccio di una gabbia vuota?” John non rispose, e si allontanò piano.
Stella del mio cuore era volata via, aveva strappato il sipario del sogno, trovato la sua natura selvatica.
E dopo mille anni ancora, John l’aspetta, per quell’attimo, per quel solo attimo, per quel batter d’ali che ammanta il crepuscolo di desiderio, quando il silenzio della mente sublima i palpiti del nostro cuore.