La mattinata è riscaldata da un sole immerso in un cielo terso il cui colore azzurro intenso si congiunge all’orizzonte con la linea verdeggiante dei boschi di pioppi.
Nonostante l’orologio posto sopra il Municipio abbia appena battuto le dieci, alcuni vecchi già occupano le sedie di vimini del bar al centro del paese. Stanno lì, intenti a fare le stesse chiacchiere di tutti i giorni, rinverdite solo dalle notizie riportate dal quotidiano locale. Ascoltano in silenzio chi tempo addietro ha imparato a leggere, il quale riporta le novità agli altri quasi compitando quando incontra parole difficili.
Il loro viso è cotto dal sole e le mani nodose hanno perso forza.
Altri aspettano il tardo pomeriggio per sedersi davanti all’uscio di casa, come gatti intenti a riscaldare le ossa con i raggi del sole al tramonto, e fare ciacole.
Altri ancora, aspettano l’ora del pomeriggio per annaffiare l’orto. Il lavoro sui campi non è più roba loro e allora, per ricordarsi di essere ancora contadini, hanno ridotto l’entità della fatica.
In testa gli uomini portano il cappello di feltro con la falda ormai floscia, spesso unico riparo contro
la pioggia di cento temporali.
Le donne, con i lunghi capelli arrotolati a crocchia, hanno il fazzoletto nero annodato dietro: il loro viso è rugoso e vi si legge la fatica del vivere.
Una umanità che ha sopportato di tutto, ma ancora in grado di regalare la dolcezza di un sorriso, la fiducia della speranza.
La strada che taglia verticalmente il paese, partendo dal fiume per arrivare alla stazione, è “bianca” con la ghiaia che scricchiola sotto i copertoni delle poche biciclette perlopiù condotte da ragazzini intenti a sfidarsi in gare di velocità e da qualche donna che ritorna a casa con appesa al manubrio la sporta del pane appena comperato.
La provinciale, per un breve tratto, percorre il centro del paese per poi allungarsi verso l’orizzonte, segnata su entrambi i lati dai filari di platani.
In prossimità di una delle due curve a gomito lambisce, lasciandola sulla sinistra, la piazza principale
con i giardini pubblici ornati da grosse magnolie e da cespugli di ginepro, verde contorno all’edificio delle scuole elementari.
Ogni tanto qualche Topolino o una vecchia Balilla vi transita per andare chissà dove.
Molto più facile incontrare carretti trainati da buoi o da cavalli che si lasciano dietro gli escrementi come segno del proprio passaggio.
In fondo là, proprio alla fine delle case, il piccolo cimitero segna il confine con le frazioni.
La stazione ferroviaria è dalla parte opposta, in fondo al paese,dopo la piccola cappella dedicata alla Madonna. Vi si accede procedendo su una corta via alla cui destra è stata recentemente collocata una spessa recinzione di ferro per separare i binari dalla strada stessa.
A dirla così, sembrerebbe uno spazio molto grande, in realtà è solo un paese di campagna, ma è come lui se lo ricordava. Quante notti lo ha sognato: il profumo del primo taglio di fieno, l’odore pulito della neve d’inverno, il caldo delle stalle con i vecchi a raccontare di tempi andati, l’odore del fiume, il volto di Lucia immaginato per sei anni.
Emozioni che si accavallano, che lo stordiscono, gli tagliano il respiro. Un’ondata di ricordi gli serra la gola, ma ricaccia in fondo quell’emozione.
Ora finalmente è tornato.
Esce dalla via della stazione, camminando piano: da diversi giorni non mangia e il viaggio per risalire l’Italia è stato interminabile.
Passa accanto alla cappella e deve fermarsi: le gambe gli tremano. Alcuni vecchi lo guardano tra il pietoso e l’incuriosito.
Si avvia con passo lento, quasi strascicato e arriva davanti al cancello di ferro di casa sua. Spinge il portoncino che si apre; fa i primi passi dentro il cortile, vede sua madre uscire dalla porta e le si avvicina. Sente il cuore tremare, ma resta fermo:
“Mi dica, ha bisogno di qualcosa?” chiede lei diffidente.
Pesa quaranta chili, i capelli si sono fatti grigi, è sporco da fare schifo, i vestiti che ha addosso sono il doppio di lui.
Gli occhi gli si riempiono di lacrime e riesce solo a mormorare:
“Mamma!”